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 2014  aprile 02 Mercoledì calendario

CINA, IL GRANDE MISTERO DELL’IMPERATORE LENINISTA


PECHINO
GLI europei hanno accolto festosi l’avanzata imperiale del presidente Xi Jinping sul continente, morsi dalla fame di esportare. Ma in quanti si sono resi conto della straordinaria novità
del suo esperimento politico?

È UN esperimento che il leader cinese sta portando avanti in patria. In breve, Xi tenta di trasformare la Cina in un’economia avanzata e in una superpotenza tridimensionale, attingendo alle energie del capitalismo, del patriottismo e delle tradizioni cinesi, il tutto però ancora sotto il controllo di quello che, nell’anima, resta uno stato-partito leninista. Xi sarà un imperatore cinese, ma è anche un imperatore leninista. Il suo è l’esperimento politico più sorprendente e importante sulla faccia della terra. Nessuno nel ventesimo secolo se lo aspettava. Nessuno, nel ventunesimo, sarà esente dall’impatto del successo o del fallimento di questo esperimento.
Nel lontano 1989, mentre il comunismo vacillava a Varsavia, Berlino, Mosca e Pechino, chi avrebbe mai detto che, a venticinque anni di distanza, saremmo ricorsi alla neo-sovietologia nell’analisi dei 60 punti della Decisione del terzo plenum del diciottesimo congresso del partito comunista, per capire bene in che modo la leadership cinese intenda promuovere la crescita economica del paese tenendolo al contempo politicamente sotto controllo. Dopo il trauma dell’affare Bo Xilai, Xi ha compiuto passi decisivi in direzione di un rafforzamento del potere del partito centrale e della sua personale posizione. Oltre ad assumere le tradizionali maggiori cariche delle forze armate nonché dello stato e del partito in tempi più brevi rispetto ai suoi predecessori, ha creato almeno quattro altri organismi di comando centrale, i “piccoli gruppi di testa”, competenti per la riforma economica, la sicurezza dello stato, la riforma militare e, significativamente, Internet. «Più di Mao!» lamenta contrariato un membro riformista del partito.
Molti reputano che la guerra dichiarata alla corruzione sia mirata a colpire l’ex capo dell’apparato di sicurezza dello stato nonché membro del vertice del partito, Zhou Yongkang. Bisogna cacciare sia le tigri che le mosche, dice la propaganda del partito con una delle sue metafore esopiche. Da un certo punto di vista potrebbe sembrare una seria presa di posizione contro la corruzione imperante ai massimi livelli dello stato partito. Da un altro rientra nel novero delle tradizionali manovre del nuovo leader che tutela il proprio potere contro reali o potenziali fazioni all’interno del partito. È una purificazione, ma anche una purga. Intanto si cancellano gli account dei blogger scomodi, si incarcerano i dissidenti e si blindano le province insofferenti.
Però, potreste obiettare, la Pechino del 2014 è distante anni luce dalla Mosca del 1974, per non parlare di quella del 1934! Avete ovviamente ragione. A Pechino o Shanghai, si vaga tra le mille luci dei centri commerciali per incontrare uomini d’affari astutissimi e sofisticati, giornalisti, opinionisti e accademici che parlano liberamente quasi di tutto. Gli executive e i miliardari di Internet parlano californiano. Gli imprenditori di successo attingono alla storia antica cinese, al confucianesimo e al buddismo per dare un senso al post-materialismo. I livelli di consumo sono alti, lo stile di vita è cosmopolita e all’ultima moda, ma sono vivi anche l’orgoglio nazionale e il senso di ottimismo storico. Gli studenti brillanti e ambiziosi entrano a frotte nel Partito Comunista, non mossi da convinzioni egualitarie ma per motivi di carriera misti a patriottismo. Ho chiesto a uno di questi giovani membri del partito in che senso, ammesso che ne esista uno, questo paese è un paese comunista. «Beh, è governato dal Partito Comunista», ha detto. Gli è sembrata una risposta perfettamente esauriente.
Il Partito riconosce esplicitamente l’esigenza di poter contare su un maggior numero di forze di mercato. Ha annunciato l’intenzione di fare un falò della burocrazia che frena le piccole e medie imprese, anche se i giornalisti cinesi che osservano queste società sul territorio nutrono dubbi sulla loro capacità di affermarsi in concorrenza con le imprese statali tuttora dominanti, dotate di forti connessioni politiche. Li Keqiang, l’abile primo ministro dello stato partito, si rende perfettamente conto dell’enorme peso delle sfide economiche individuate dagli esperti, cinesi e stranieri, come la crescita del debito, la bolla immobiliare e la troppo esigua domanda interna di consumo.
A mio avviso quindi non è vero che non c’è nulla di nuovo sotto il sole cinese (ammesso che riusciate a vederlo dietro la cortina di smog). Anzi, c’è un cocktail frizzante di vecchio e nuovo. Meglio non o perdere di vista il vecchio che c’è dentro il nuovo e che non immaginare che il linguaggio da Politburo del terzo plenum del partito sia puramente formale. Ovunque si guardi, fabbriche, giornali, aziende agricole, università, il segretario del partito ha un potere decisivo. Esistono comitati o cellule del Partito comunista all’interno delle aziende private, incluse quelle di proprietà straniera. Molti sono apertamente riconosciuti, alcuni forse no. (Sarebbe interessante sapere chi è l’uomo del partito nell’operazione che ha portato alla realizzazione del sito del Financial Times in lingua cinese. Perché non intervistarlo al ristorante per la rubrica del sabato della testata, Lunch with the F-T?)
Nel momento in cui Xi e i suoi colleghi del comitato permanente del Politburo si sono attivati per consolidare il proprio potere e stabilire la rotta è chiaro che “l’approfondimento delle riforme” di Xi verrà realizzato tramite un più forte controllo del partito. Da anni ormai molti miei amici, cinesi e stranieri, membri del partito e critici dichiarati, attendono passi avanti in direzione di una maggior separazione tra stato e partito, una più autentica legalità (invece del mero legalismo) , maggiore spazio alle ong e un dibattito pubblico più aperto. Qualche rimasuglio di queste speranze permane nell’attuale pacchetto di riforme — ad esempio i tribunali risponderanno almeno ad un’autorità superiore dello stato partito invece di essere controllati direttamente da pari livello dei quali dovrebbero regolare i poteri. Ma non c’è molto altro. In una direttiva del partito dalla denominazione squisitamente orwelliana, il Documento numero 9, sono elencate sette idee apparentemente sovversive che il buon compagno non deve tollerare. Tra questi sette tabù figurano la democrazia costituzionale, i valori universali e la società civile.
Dato che i prossimi anni saranno critici per l’economia cinese, si pone un interrogativo preciso, che non riguarda più la possibilità che la riforma politica evolutiva, la graduale maggior trasparenza, i meccanismi equilibratori di tipo costituzionale, la libertà di espressione e il dinamismo della società civile vengano utilizzati a complemento e rafforzamento della riforma economica. Ci si chiede invece se uno stato partito rinvigorito sfruttando in misura senza precedenti le energie del capitalismo, del patriottismo e delle tradizioni cinesi del passato, possa riuscire a padroneggiare le sfide sempre più ardue poste da una continua modernizzazione.
La risposta è ….? Nell’arco di qualche ora parlo con due dei massimi corrispondenti stranieri in Cina, entrambi molto ben informati. La diagnosi che fanno è pressoché identica, le previsioni straordinariamente diverse. L’uno pensa che il partito possa ancora mantenere il carrozzone gestendo con intelligenza lo sviluppo guidato dallo stato. L’altro ipotizza il crollo economico, la rivolta sociale e lo sconvolgimento politico. In breve, nessuno sa rispondere. Ma almeno l’interrogativo dovrebbe esser chiaro.
(Traduzione di Emilia Benghi)