Alberto Flores d’Arcais, D, la Repubblica 29/3/2014, 29 marzo 2014
MEXICO VA VELOCE
La data simbolica è quella del 5 febbraio. Quando l’agenzia di rating Moody’s ha alzato il rating del Messico (portandolo ad A- -) è apparsa chiara la mutazione di un Paese dove per decenni grande corruzione e cartelli della droga l’hanno fatta da padroni. Con il riconoscimento di quella prima lettera dell’alfabeto, mai avuta prima (tra i paesi latino-americani solo il Cile l’aveva ottenuta), il Messico si conferma come il nuovo polo di attrazione economica dell’America latina, superando nelle aspettative dei mercati internazionali anche il gigante Brasile.
Cinque anni fa - con un’economia sull’orlo del collasso, una guerra spietata con decine di migliaia di morti tra i “cartelli” della criminalità organizzata e la fuga di massa (di manodopera a basso costo ma anche di cervelli) dei suoi cittadini verso gli Stati Uniti - il Messico sembrava aver raggiunto un punto di non ritorno. In un rapporto del Pentagono il “vicino maledetto” veniva paragonato al Pakistan dell’Islam corrotto e dei santuari di Al Qaeda, due Paesi “a rischio di un rapido e improvviso collasso” con possibili (e nefaste) conseguenze per la sicurezza degli Stati Uniti. Con l’aggravante (per il Messico) di essere un Paese nel “cortile di casa” degli Usa. Nessuno, né allora né in anni più recenti, avrebbe scommesso un dollaro sul futuro messicano, ma da un anno a questa parte il trend è cambiato e la “Tigre Azteca” ha iniziato a ruggire.
Per capire la portata del cambiamento basta osservare cosa succede nella lunga frontiera che il Messico divide con la grande potenza del Nord, quegli Stati Uniti da sempre terra promessa. Terra amata da milioni di poveri messicani, pronti a rischiare la vita nel deserto (ne sono morti a migliaia) pur di entrare come clandestini nell’American Dream: nella terra odiata per via di quei gringos che a metà dell’Ottocento “rubarono” al Messico i territori diventati ricchi States a stelle e strisce (Texas, California, New Mexico). Numeri e statistiche lo spiegano chiaramente: nel 2012 i chicanos entrati illegalmente negli Usa sono stati circa 300mila, cinque anni fa erano il doppio, dieci anni fa il triplo. Un calo dovuto anche alle rigorose misure di sicurezza adottate dagli Stati Usa di frontiera (Arizona in primis) ma se oggi il saldo tra chi passa il Rio Grande verso nord e chi fa il percorso in senso contrario è pari allo zero, lo si deve soprattutto al boom economico del Messico.
Principale autore dell’attuale rinascimento messicano è Enrique Peña Nieto, il 47enne presidente in carica dal dicembre 2012. Rampollo di una grande famiglia politica, membro del Pri (il Partito Rivoluzionario Istituzionale che ha guidato - tra consenso popolare e corruzione - il Paese per oltre 70 anni), già governatore dello Stato principale (il Messico è una federazione, come gli Usa) dal 2005 al 2011, Peña Nieto ama presentarsi come un giovane riformatore, l’uomo nuovo di cui il Messico aveva bisogno. In un anno di governo, sia pure tra mille difficoltà, è riuscito ad imporre alcuni punti cruciali del più ambizioso progetto di riforme (economiche, politiche e sociali) che il Messico abbia mai visto nella sua storia. Con un immediato riscontro: nel suo primo anno al potere decine di compagnie straniere hanno iniziato ad investire in Messico, grandi e nuovi capannoni industriali sono stati costruiti lungo le autostrade un tempo circondate da deserto, l’industria automobilistica (già da anni settore trainante dell’economia) ha di fatto sorpassato Detroit, creando posti di lavoro legati all’industria dell’auto che superano quelli dell’intero Midwest degli Stati Uniti. Tutte le grandi marche (General Motors, Ford, Chrysler, Honda, Nissan, Mazda, Audi, Volkswagen) hanno annunciato e stanno mettendo in atto piani di espansione, con investimenti pari a dieci miliardi di dollari. Nei quartieri di Mexico City e di altre grandi città dove vive il ceto medio, il boom edilizio è visibile a occhio nudo, mentre nelle università si moltiplicano i corsi di informatica, ingegneria e biotecnologia che (con costi ridicoli rispetto ai college negli Usa) attirano studenti anche dall’estero.
Negli ultimi mesi Peña Nieto è andato all’attacco di quelli che sono considerati i “poteri forti” del Messico. Lo scorso dicembre ha rivoluzionato il mercato energetico togliendo alla Pemex (la compagnia di Stato) il monopolio assoluto (detenuto per 75 anni) sullo sfruttamento dei giacimenti e la raffinazione del petrolio, aprendo le porte del mercato (è il settimo produttore al mondo) alle compagnie straniere. Mossa apprezzata dai giganti petroliferi mondiali e dalla finanza di Wall Street, che ha parlato di “riforma epocale”. In febbraio il presidente ha inviato al Congresso una nuova legge antitrust che innalza a dieci anni di carcere la pena per il reato di “pratica anticoncorrenziale”, e recentissima è l’offensiva negli altri due settori considerati chiave nel progetto di riforme: istruzione e telecomunicazioni. Con la riforma di scuola e università - che prevede fra l’altro una valutazione del lavoro degli insegnanti - è iniziato un lungo braccio di ferro con uno dei più potenti sindacati del Paese, ma la sfida epocale è quella che ha lanciato ai due principali businessman del Messico, il magnate delle telecomunicazioni Carlos Slim e il mogul televisivo Emilio Azcárraga. Il primo controlla il 70 per cento del mercato della telefonia cellulare e l’80 per cento di quella fissa, il secondo (patron di Televisa) ha il controllo del 70 per cento del mercato televisivo e della metà delle pay-tv.
In questo quadro la ciliegina sulla torta è stata la cattura di Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, il potente boss del più agguerrito e sanguinario cartello della droga, quello di Sinaloa, l’uomo più ricercato al mondo. L’operazione che ha portato all’arresto (fatta in modo congiunto dalle forze anti-narcos messicane e Usa), oltre ad assestare un duro colpo all’organizzazione criminale, è anche un segnale “economico”, in primo luogo per il mercato del turismo (soprattutto straniero) crollato negli ultimi anni a causa della guerra tra i cartelli del narcotraffico e della violenza diffusa in tutto il Paese.
Ovviamente c’è ancora molto da fare per rendere il Messico definitivamente competitivo, soprattutto nella lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, i due veri cancri del Paese. Ma con una disoccupazione al di sotto del 5 per cento (anche se le cifre ufficiali non tengono pienamente conto del lavoro sommerso, che riguarda quasi il 60 per cento dell’intera economia) e gli investimenti che arrivano da tutto il mondo (Italia compresa), un futuro di crescita sembra assicurato.
Il nuovo Messico piace, tanto che il Financial Times ha voluto mandare un messaggio anche al nostro nuovo premier Renzi: «Invece che da Obama e Blair dovrebbe prendere esempio da Peña Nieto».