Roberto Giardina, ItaliaOggi 1/4/2014, 1 aprile 2014
EUTANASIA DI ELETTRODOMESTICI – [BASTEREBBE UN BUON RIPARATORE PER RIMETTERLI IN SESTO]
Nella Sicilia della mia infanzia, non c’era il frigo ma la ghiacciaia. Passava qualcuno a vendere le stecche di ghiaccio, lucenti, affascinanti, poco igieniche come ammoniva mia madre. Poi giunse il primo frigo, un grande apparecchio della Fiat. Funzionava ancora trent’anni dopo, poi le guarnizioni cominciarono a tramutarsi in polvere, e non potevano venire sostituite.
Il glorioso frigo sempre vivo ma sfiatato finì in una discarica. I successori non si sono mai dimostrati altrettanto resistenti, italici o d’importazione.
La mia stampante mi parla, anzi mi scrive sul display, e mi dà del tu, in tedesco, dove tra colleghi si usa il «Sie», il lei, anche dopo vent’anni. Non importa. «Cambiami il drummer», mi ordina. Se sapessi cos’è. Trovo la risposta su Google, prendo la vaschetta in cui si adagia il toner, la cartuccia, e vado in negozio.
«Perché lo vuole cambiare?» domanda il commesso. «Lo chiede la stampante». «Lei non deve credere a tutto quel che le dicono le macchine», mi educa, dandomi del lei, il ragazzo oltre il bancone. Siamo in Germania, anzi in Prussia, e qualche volta i pregiudizi positivi sono veri. Potrebbe vendermi un pezzo di ricambio a caro prezzo e non cade in tentazione. «È a posto», ci soffia sopra e me lo restituisce. Gratis. Non capita solo a me, mi rassicura.
I frigoriferi, le tv, le stampanti, le auto potrebbero durare una vita, come il Fiat che mandò in pensione la ghiacciaia nella mia felice adolescenza isolana. Ma le fabbriche li programmano perché abbiano una vita limitata. Altrimenti fallirebbero. Se non basta la manipolazione della pubblicità che ti convince d’aver bisogno di un modello alla moda, cominciano a esalare l’ultimo respiro, esattamente il giorno dopo che scade la garanzia. I pezzi di ricambio forse si trovano ma la mano d’opera finisce per costare più di un apparecchio nuovo.
Quando cadde il Muro, un mensile che non esiste più mi chiese di trascorrere alcuni giorni insieme con una famiglia passata dalla Germania comunista nell’ovest capitalista. Trovai un giovane ex operaio della Carl Zeiss Jena, come dire dell’élite della classe lavoratrice di tutto il blocco orientale. Era depresso. «Ero il mago delle riparazioni a Jena», mi raccontò. Una tv un frigo, una lavatrice era un conquista sociale di là della cortina di ferro, e lui riusciva a riparare tutto, i pezzi di ricambio se li fabbricava a mano. In cambio, nella società comunista che si basava sul baratto, riceveva bistecche, insalata, biglietti per l’opera. All’ovest lavorava alla Siemens, nel reparto garanzia, dove giungevano gli apparecchi nuovi e difettosi. «Ma passa il mio capo, dà un’occhiata e mi dice di buttar via tutto. Meno costoso spedire un apparecchio nuovo. Io non servo più a nulla». Ormai sarà in pensione.
La mia stampante non solo si prende troppa confidenza, ma mente. «Sono arrivata alla fine», ho letto sul display. O qualcosa di simile. In casa si trovava per fortuna un polacco che fa tutti i lavori, e dopo anni è diventato un amico. «Non dia retta», mi ha avvisato. Ha girato una manopola, e la stampante continua a stampare. Come Al 2000, il computer di «Odissea dello Spazio», è stata programmata per stampare tot decine di migliaia di copie. Dopo, annuncia la fine. Ma potrebbe continuare all’infinito o quasi.
I trucchi e gli inganni (o truffe?) dei produttori sono denunciate dal professore di economia Christian Kreiß nel libro «Geplanter Verschleiß», usura programmata, appena uscito dall’ «Europa Verlag” (18,99 euro). In media, scrive, ogni cittadino spreca 110 euro al mese perché gli elettrodomestici e le altre macchine sono costruite per esalare presto l’ultimo respiro. Una stampante, mi conferma, vuol andare in pensione dopo 15 mila copie. Gli spazzolini elettrici sono costruiti in modo che non si possa cambiare la batteria. Le chiusure lampo si inceppano volutamente non perché siete maldestri. Le tv durano dieci anni di più manipolando qualche circuito come sa fare il mio polacco.
di Roberto Giardina (da Berlino)