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 2014  marzo 29 Sabato calendario

DIAVOLO IO? SONO SOLTANTO UN CUOCO

[Intervista a Carlo Cracco] –

Partiamo dalle scarpe o dal finale incasinato di Masterchef? Le prime sono quelle che Carlo Cracco, il più famoso cuoco italiano, mostra in una campagna pubblicitaria: lo specchio di un tempo dove gli chef sono diventati più popolari – non ricchi – di parecchi calciatori e gli rubano pure il mestiere. Da non credere. «È solo una storia di amicizia e di memoria. Enrico Polegato mi ha chiesto se volevo essere testimonial della loro nuova linea di sneakers: Diadora mi ricordava l’adolescenza, le prime scarpe da calcio, Roby Baggio e ho accettato. Sì, è vero: non avrei mai immaginato una cosa del genere quando ero un giovane cuoco». Come non erano pensabili le copertine e la partecipazione al Festival di Sanremo, i best-seller e i gossip, le critiche e le tante (troppe) invidie. È scontato, per chi è numero uno e Cracco lo è. Ora, che ha 48 anni, una bella moglie e tre figli (un quarto è in arrivo), una popolarità al massimo, vediamo un solo pericolo: che gli passi la voglia di creare, sperimentare, cucinare insomma. A lui potrebbe (forse) andare bene, a noi assolutamente no.
Caro Cracco, riponiamo le scarpe. Impossibile non tornare indietro di qualche settimana. Peccato per le macchie finali della terza edizione di Masterchef.
«Probabilmente la diretta dell’ultima puntata non ha reso come nelle attese – lo ha detto anche Sky – e si poteva fare meglio. Però faccio il cuoco e il giudice in tivù, guidare programmi live non è il mio mestiere. Inoltre vorrei sottolineare che la finale è stata seguita da un milione e 400mila persone, con picchi del 7,2% di share. Quindi si poteva chiudere in modo migliore ma i dati di ascolto restano eccezionali».
Lo sconfitto Almo ha tirato in ballo di tutto per giustificare l’inattesa sconfitta: tagli al montaggio, vostra incapacità nel giudicare, persino il comportamento dei bookmaker alla vigilia della finale...
«Ovviamente parlo solo da giudice, il resto non mi interessa. Io, Barbieri e Bastianich siamo lì per valutare e prendere delle decisioni, che piacciano o meno. Ha prevalso il menu di Federico, quello di Almo è stato inferiore. Tutto qui, niente di strano».
Cracco, sia sincero, un minimo sarà rimasto male per le critiche alla diretta e le polemiche creato dai due protagonisti.
«No, davvero. Le polemiche ci stanno, fanno parte del gioco, d’altronde più se ne parla meglio è..no!?. Ma per me l’esperienza resta ampiamente positiva, è stato un Masterchef di alto livello con partecipanti in gamba e grandi ospiti».
Ora parte Hell’s Kitchen Italia: lei sarà il «diavolo» al posto di Gordon Ramsay.
«Esatto. Giudicherò un team di cuochi professionisti, tra i 18 e i 30 anni, che vogliono migliorare la preparazione. Sono andato a Los Angeles per seguire una puntata del programma e Ramsay era contento: lui ama l’Italia e ha saputo che saremo il primo Paese a fare una versione originale di Hell’s Kitchen, non a tradurlo e basta».
Aldo Grasso il noto critico televisivo ha detto che lei non o credibile quando fa il cattivo perché si intuisce che è persona gentile. Quindi Hell’s Kitchen...
«Non sono inutilmente cattivo, ma severo sì. E in cucina, sono peggio di un sergente: garantisco. Poi Gordon ha il suo stile e io il mio».
Troppe partite in tivù hanno nuociuto al calcio, togliendo pubblico agli stadi. Non teme che troppi programmi di cucina provocheranno la nausea?
«Altra storia, il calcio vive su due-tre partite alla settimana per squadra. Si mangia tre volte al giorno e quindi di argomenti ce ne sono molti di più. Io sostengo che la tivù ha promosso la cucina, in primis facendo scoprire alla massa il ruolo del cuoco. Poi si è allargata esponenzialmente la fascia degli appassionati che talvolta sono diventati i nuovi clienti dei nostri locali. Semmai direi che troppa Tv fatta male nuoce: quando vedi programmi di cucina che scimmiottano altri o non hanno capo ne coda, bisogna porsi delle domande e preoccuparsi».
Tre provocazioni, una dietro l’altra. La prima: il tempo sempre più scarso che sta dedicando al ristorante.
«Nell’ultimo anno, per tre mesi ho registrato. Gli altri nove ero qui a lavorare, stop».
Ma o vero che ormai la foto con lei fa parte dell’esperienza?
«Noi arriviamo sempre dopo. I giapponesi la chiedevano già dieci anni fa, per loro è il ricordo di una serata di alta cucina. Ora la vogliono tutti, ma non è un fastidio».
Provocazione numero due: l’addio dello storico sous-chef Baronetto.
«Matteo per me è stato un fratello: diciotto anni nelle stesse cucine hanno creato un rapporto forte, non poteva che dispiacermi. Però mi aspettavo che facesse qualcosa di suo e non all’interno di un’operazione come quella del nuovo Cambio torinese: bella e importante ma non so se riuscirà a tirar fuori tutte le doti che possiede».
Numero tre: la collaborazione interrotta con Palazzo Parigi, a Milano.
«Ottima opportunità. Ho designato la cucina e la sala, studiato cantina e menu, curato l’apertura: a me piace molto creare da zero un meccanismo e qui l’ho fatto. Certo, è mancato il passaggio definitivo ma “trasferire” un ristorante all’interno di un hotel è complicatissimo. Diciamo che ho lasciato una cosa bella a chi saprà sfruttarla. Ma ci vorrà un bel coraggio, impossibile farlo da lontano e come una consulenza».
Letti gli articoli che accusavano i giudici di Masterchef di fare «marchette»?
«Li considero provinciali: non ho capito perché in Francia ci sono miti che da 30 anni – parlo di Paul Boucuse per esempio – pubblicizzano bistrot, grembiuli e via dicendo mentre noi troviamo sbagliato che un cuoco pubblicizzi pentole? Forse che Fazio perde in serietà se fa una reclame al detersivo? Quindi visto che adoro le pentole non vedo perché rifiutare di essere testimonial di un’azienda italiana che ne fa di bellissime e tecnicamente perfette».
Gelosia verso i cuochi moderni?
«Forse. A me piacerebbe leggere magari che siamo sempre più protagonisti di team building e convention: la parte che meno si vede ma che personalmente mi stimola di più».
Lei o uno dei pochissimi chef-patron di alto livello rimasti sul mercato. C’è chi ha una grande famiglia alle spalle o i figli che l’aiutano, c’è chi è al servizio delle griffe della moda, c’è chi lavora per l’hotellerie...
«Lo so ma tanti fanno finta di non saperlo. Mi paragono al Chievo e mi sento il piccolo imprenditore, se vogliamo anche un po’ pazzo, che continua ad affrontare la Juve con un budget notevolmente inferiore. Ma intanto crea campioncini, servendosi di tanto valore aggiunto. Una volta lo chef-patron era considerato il massimo, ora no».
Per questo, lavora su più fronti?
«La ristorazione, soprattutto quella alta, soffre. Al di là della crisi generale, l’offerta è sempre più ampia e il pubblico non cambia. Aggiungiamo che a Milano tutto costa il doppio ed ecco che diventa molto difficile guadagnare con un solo locale. Però anche qui, pare che sviluppare qualcosa intorno a un brand sia un delitto per un cuoco. E la moda? Le griffe non hanno più linee? Il fatturato lo fanno solo con l’haute couture?».
Il suo maestro Gualtiero Marchesi l’ha definito un alchimista e ha descritto l’Italia come «un Paese da trattorie».
«Ha ragione, lui ha iniziato in una famosa trattoria... Battuta a parte, siamo storicamente un popolo di osti e trattori, probabilmente i più bravi del mondo. Ma non basta più, ci vuole una crescita globale della ristorazione. in tutte le sue formule».
Tipo quella del suo nuovo locale, «Carlo e Camilla in Segheria»?
«È stato un colpo di fulmine. Mia moglie Rosa mi ha trascinato nella vecchia segheria di via Meda, dove si organizzavano eventi. Appena entrato, ho avuto l’illuminazione. La proprietaria Tanja Solci mi ha proposto di fare qualcosa e via. Era luglio 2013».
Breve descrizione per chi non ci è ancora stato.
«Qualcosa di sereno e simpatico, senza liturgie. Anche il nome lo fa intuire. Possiamo definirlo un gastro-bistrot, più americano che francese, dove il design dell’ambiente e la qualità del cibo sono sopra la media di quelli sul mercato».
Cracco, deve ammettere che in questo o arrivato dopo tanti illustri colleghi. Il «secondo locale» o normalità da anni.
«Mi era mancata sempre l’occasione. Marchesi dice sempre che una cosa va fatta nel momento in cui ti senti di farla. E io la penso come lui. E comunque il mio non è un secondo locale...»
Spieghi, please.
«Non c’è nulla in comune con il ristorante. Ovvio che la cucina segua la mia filosofia ma io non sono li. Lo vedo come un investimento e un modo di divertirsi. In sostanza, non l’ho fatto per mantenere il primo locale quello gourmet come succede per alcuni colleghi. Tra l’altro, sono operazioni che possono andare male: c’è chi ha venduto il “secondo locale” perché non funzionava».
Scusi Cracco, ma o cosi complicato gestire il doppio fronte?
«Difficilissimo. È un altro mestiere, mi creda, basta guardarsi in giro».
Si è parlato tanto di una sua collaborazione con Prada: un locale in Galleria...
«Francamente non so nulla, ho letto solo tanti gossip sul web. Certo, lavorare con un gruppo del genere sarebbe una bella sfida. Se vede Bertelli, glielo ricordi».
Segnato. Qualche mese fa c’è stato un puntuto dibattito tra Bottura e Oldani su quale sia la vera cucina: il primo ha paragonato la sua una Ferrari e, il secondo ha detto che la sua Cinquecento Pop è più difficile da guidare e più adatta al tempi. Entri a gamba tosa.
«A me pare che la Fiat per stare in piedi abbia bisogno di tutti e due i modelli, no? È come la discussione sulla superiorità di un modulo calcistico rispetto a un altro. Per prima cosa bisogna vedere gli interpreti e poi l’importante è giocare bene, vincendo».
Il suo ultimo libro «A qualcuno piace Cracco» tratta solo di cucina regionale. Si è ficcato in un ginepraio colossale..
«Ne ero conscio ma ho sentito la voglia di farlo ora, per creare un corretto passaggio alla generazione successiva di cuochi. Ho cercato di muovermi delicatamente, con grandissimo rispetto per la tradizione locale e l’essenza delle regionalità. Potrei dire anche della provincia e delle città».
Dicono: alcune ricette sono stato stravolte.
«Non sono d’accordo. Come è vero che alcuni piatti della nostra storia resteranno eterni, altri sono migliorabili: più leggeri, più sani, più “qualcosa”. Altri ancora si possono arricchire con nuovi ingredienti. Ho studiato tanto per questo libro, ho rispettato il più possibile ma sono stato deciso nel proporre una rivisitazione. Del resto il sottotitolo è “La cucina regionale come piace a me”».
Lei sta dimostrando di essere uno scopritore di talenti:, ha consigliato alla famiglia Trussardi prima Andrea Berton e poi Luigi Taglienti con ottimi risultati.
«La verità è che penso di avere ereditato da Marchesi non solo io la voglia di formare i giovani. Lui ha dato una mano a noi quando eravamo alle prime anni e noi lo facciamo con loro: se fai bene un lavoro, lo trasmetti agli altri».
A proposito, se l’aspettava che a 84 anni, Marchesi mollasse il «buen retiro» dell’Albereta per aprire un resort in Piemonte?
Lui è unico al mondo e ha una forza incredibile. No, non mi ha sorpreso.
Pensa di restare cosi tanto sulla breccia pure lei?
«Per carità. Il mio sogno è girare il mondo per 200 giorni all’anno».
Il Maestro non vuole neppure essere citato dalle guide. Lei le guarda ancora?
«Sì, con un occhio diverso. Da giovane non vedi l’ora di scalare le classifiche, quando sei affermato è giusto comunque seguirle. Per uno chef restano comunque uno stimolo a migliorarsi».
Trip Advisor non è tenero con lei.
«Diciamo che ci sono recensioni ottime, in maggioranza, e anche negative. Il mondo è cambiato, quindi il web fa parte del gioco. Di sicuro, rispetto alle guide tradizionali, i vari blog e i siti sono più immediati ma spesso un po’ superficiali».
È stato protagonista anche del Masterchef israeliano. Cosa dicono di noi all’estero?
«Siamo quelli di pizza e spaghetti: abbattere gli stereotipi è difficilissimo».
Un suo ristorante all’estero potrebbe aiutare il movimento?
«Può essere, sarà al momento giusto, se capiterà. Per ora non ci penso».
Tra un anno l’Expo. Un consiglio da un milanese «ad honorem»?
«Penso sia un’occasione imperdibile per la città, per il wine & food italiano, per noi cuochi, per l’Italia. C’è l’occasione per far cambiare un’idea sbagliata del nostro Paese. Consiglio? Più coraggio e determinazione»
Ultima curiosità: cosa cucina ai suoi, evidentemente molto fortunati?
«Due-tre cose insieme, cercando di venire incontro ai gusti e alle esigenze dei singoli».
Ci sarà un piatto che li mette d’accordo...
«Il risotto alla milanese». Ma... «Con il midollo e i pistilli di zafferano. Ne dubitava?».