Fabrizio d’Esposito, Il Fatto Quotidiano 1/4/2014, 1 aprile 2014
VINO, SPUTI E BOTTE L’EPOPEA DEL SENATO
A Palazzo Madama, la Domenica delle Palme del ‘53 comincia con un segno di pace. È il 29 marzo, di mattina. La senatrice Angelina Merlin detta Lina, socialista, che cinque anni più tardi fece la legge per chiudere i casini, distribuisce infatti ramoscelli d’ulivo a tutti. Ore e ore dopo, il comunista Clarenzo Menotti sradica dal suo banco il leggìo e lo lancia contro il presidente del Senato, Meuccio Ruini. Un’arma micidiale perché la tavoletta è comprensiva di calamaio. Ruini è colpito e ferito. Viene trascinato via a braccia dai commessi. Grida: “La legge è approvata, la seduta è tolta, viva l’Italia”. Un altro senatore del Pci, Velio Spano, prende una poltroncina per scagliarla sul povero presidente ma viene bloccato in tempo. I tumulti durano da quasi un’ora. Comunisti contro tutti. Girolamo Li Causi insulta Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio: “Carogna, porco!”. Emilio Lussu schiaffeggia il repubblicano Ugo La Malfa. Questi risponde: “Non reagisco perché sei vecchio”. A un altro esponente del Pri, Randolfo Pacciardi, vicepresidente del Consiglio, la rottura degli occhiali provoca una seria escoriazione. Il liberale Renato Angiolillo, direttore del Tempo, e il socialista Giuseppe Casadei vengono presi a calci nel sedere.
Scene di lotta fisica tra i banchi
Sul Borghese, giornale di destra, la seduta viene riassunta così: “Centodieci senatori si sono resi responsabili dei seguenti reati: ingiuria, diffamazione, violenza privata, minacce, percosse, lesioni, tumulti, distruzione di pubblici documenti, istigazione a delinquere, vilipendio al governo, oltraggio al Parlamento e attentato contro gli organi costituzionali. Se fossero centodieci cittadini qualunque, e non senatori, sarebbero stati condannati, complessivamente, a 150 anni di galera”. La rissa delle Palme a Palazzo Madama è l’epilogo dell’approvazione della cosiddetta legge truffa elettorale. Il 65 per cento dei seggi a chi prende il 50 per cento più uno dei voti. A distanza di decenni, una legge formidabile in confronto al Porcellum e al novello Italicum. A volerla è De Gasperi e il Pci fa un ostruzionismo che sfocia nella violenza. La legge truffa è letale per due presidenti del Senato. Il primo Giuseppe Paratore si è dato alla fuga e ha abbandonato la carica di fronte alle insistenze di De Gasperi. Al suo posto, il 25 marzo, quattro giorni prima dell’approvazione, viene eletto Ruini, padre costituente e vecchio radicale, che poi si dimetterà a giugno.
Bicameralismo tormentato
Sul finire degli anni novanta, Vittorio Orefice, leggendario cronista parlamentare, scrive nella sua biografia, intitolata La Velina: “Il Senato non fa notizia perché è un doppione avanti negli anni”. Il bicameralismo è stato un tormento persino persino per la dittatura di Benito Mussolini. Dal ‘29 al ‘39, presidente del Senato è Luigi Federzoni, che nelle sue memorie annoterà sotto la voce “progettata demolizione del Senato”: “Mussolini vagheggiava ormai l’abolizione del sistema bicamerale, con l’istituzione di un’assemblea unica sul tipo anodino del novissimo Reichstag hitleriano”. Nell’autunno del 1981, l’abolizione o quantomeno una riforma radicale del Senato viene invocata invece dal comunista Giorgio Napolitano, in un editoriale sul settimanale Rinascita: “È oggi essenziale reagire al deterioramento del ruolo, della capacità di intervento, della vita del Parlamento. Occorre affrontare le questioni del bicameralismo, della composizione e dei compiti delle due assemblee, della possibilità di superare la pesantezza dell’assetto attuale”. Quell’abolizione mancata, nel pieno della Prima Repubblica, si è poi ritorta completamente contro la sinistra post-Muro. Se fosse passata infatti la norma che prevedeva la fiducia al governo da parte della sola Camera dei deputati (come del resto vuole oggi Renzi), sia Prodi nel 2006, sia Bersani nel 2013 avrebbero governato tranquillamente da Palazzo Chigi. Al contrario, da otto anni, l’aula di Palazzo Madama si è trasformata nella bestia nera del centrosinistra.
L’aula maledetta del centrosinistra
Il 24 gennaio 2008, a Palazzo Madama, si consuma un pezzo del dramma della caduta di Romano Prodi. Una valanga cominciata con l’addio del senatore dipietrista Sergio De Gregorio, passato a Berlusconi per tre milioni di euro. L’atto finale riguarda l’addio dell’Udeur di Clemente Mastella. Ma un mastelliano siciliano, Nuccio Cusumano, si ribella e dice sì a Prodi. Prende la parola e annuncia: “In solitudine voto la fiducia al governo”. Nello stesso momento, Tommaso Barbato, suo compagno di partito, si precipita in aula e gli grida, nell’ordine: “Pezzo di merda, traditore, cornuto, frocio”. Poi, sfregio massimo, gli sputa in faccia. Cusumano sviene. La seduta viene sospesa. Un ex an, Nino Strano, insulta anche lui il mastelliano dissidente: “Sei una squallida checca”. De Gregorio racconta di aver visto Cusumano piangere. Lo stesso Strano poi festeggia la fine di Prodi stappando una bottiglia di champagne e mangiando mortadella.
Fischi ai senatori a vita e l’urlo di Quagliariello
Nella Seconda Repubblica, gli insulti non hanno risparmiato neanche i senatori i vita, necessari per la sopravvivenza del Prodi 2006-08. Altre scene madri hanno per protagonisti Gaetano Quagliariello che grida “Assassini” all’annuncio della morte di Eluana Englaro e Bondi e Formigoni che vengono alle mani il giorno storico della decadenza di Silvio Berlusconi, il 27 novembre 2013.
Pericolo comunista: niente alcol alla buvette
Al Senato, per tradizione si cerca di evitare le sedute notturne per il tasso alcolico causato dalle frequenti visite alla buvette. Alla fine degli anni sessanta, il mitico comunista Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo, fu sentito, ebbro, improvvisare un osceno madrigale contro una senatrice del Pli, Lea Alcidi Bocacci Rezza. Di un senatore del Psiup, Masciale, di nome Angelo Custode, un giornalista scrisse che non reggeva il vino e ci fu un chiarimento nella sala stampa. Sancita la pace, Angelo Custode Masciale chiese un bicchiere di latte.