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 2014  aprile 01 Martedì calendario

NEGLI ANNI DEL FEDERALISMO FISCO REGIONALE A +81,4%


MILANO Per capire l’entità della sfida che attende la riforma del Titolo V, accanto ai manuali di diritto costituzionale serve qualche numero. I primi riguardano il Fisco delle Regioni, che nel 2013 raccoglie una cifra intorno ai 5,5 punti percentuali di Pil, contro i 3,9 chiesti nel 2000, ultimo anno pienamente "centralista". In termini nominali, si tratta di un’impennata dell’81,4% (quasi 40 miliardi di euro), che ha tenuto il passo di una spesa cresciuta del 57% (64 miliardi) nello stesso periodo. Fin qui non ci sarebbe nulla di troppo strano, perché quando le competenze si spostano dal centro ai territori è ovvio che i bilanci delle Regioni si gonfino delle spese necessarie a svolgere le nuove funzioni e delle entrate indispensabili a finanziarle. Il problema è quando a queste cifre si affiancano quelle scritte nei bilanci dello Stato centrale, cioè di quelle amministrazioni che con la svolta federalista avrebbero dovuto alleggerirsi di competenze. Bene: tra 2001 e 2011, secondo le serie storiche della Ragioneria generale dello Stato, il Fisco centrale ha chiesto 452,3 miliardi di euro, cioè il 32% abbondante in più dell’ultimo anno "pre-federalista", mentre nello stesso periodo il Pil nominale, cioè la ricchezza prodotta dal Paese, è cresciuta solo del 25 per cento. Il difetto d’origine del federalismo all’italiana nato con la riforma del 2001 sta qui: mentre esplodevano entrate e spese delle Regioni, continuavano a crescere le richieste del Fisco centrale, in una miscela di ingredienti che hanno contribuito nel loro insieme a generare la pressione fiscale di oggi: il 43,5% scritto nei documenti ufficiali 2013, che si confronta con il 41,3% riportato nei conti di dodici anni prima.
Alla base di questo problema non ci sono naturalmente i «costi della politica» regionale, che hanno nutrito abusi molto gravi, hanno inferto un danno d’immagine difficile da recuperare per i parlamentini del territorio e negli anni d’oro (2011) hanno portato la spesa per gli «organi istituzionali», al record dei 900 milioni di euro: il doppio rispetto all’epoca pre-federalista, ma pur sempre lo 0,6% delle uscite totali delle Regioni.
Il punto, allora, è strutturale, e va cercato nell’attribuzione di compiti di spesa cresciuti a un ritmo molto più vivace rispetto a quello vissuto dai controlli e dalle responsabilità, e nell’incapacità dello Stato centrale di alleggerire davvero strutture e spese mentre cedeva funzioni alle Regioni. Il "pacchetto" di competenze decentrate, poi, ha portato sul territorio temi tipicamente "statali", dall’energia alle grandi reti di trasporto, con una sovrapposizione di funzioni che si è tradotta nella formula della «competenza concorrente».
I costi di sistema che si sono moltiplicati su questa architettura, dai poteri di veto all’allungamento dei tempi per le decisioni, spesso non sono "monetizzabili", ma sono imponenti. Per averne una dimensione numerica è sufficiente guardare la banca dati della Corte costituzionale, che dal 2002 a oggi si è occupata dei conflitti di competenza fra Stato e Regioni circa 1.700 volte: in pratica, in più di una sentenza su tre la Consulta si è dovuta impegnare nelle battaglie legali innescate dal Titolo V, che ha trasformato i giudici costituzionali in una sorta di "giurì di lusso" nei rapporti fra i Governi di Roma e quelli dei territori.