Lorenzo Mondo, la Stampa 1/4/2014, 1 aprile 2014
CLAUDIO MAGRIS “IL ROMANZO NON FINIRÀ”
Con Claudio Magris, di passaggio a Torino dove coltiva lunghe amicizie, parliamo a briglia sciolta di romanzo. E’ un tema che lo appassiona e si è cimentato con questo genere letterario in varie declinazioni, da Illazioni su una sciabola e Un altro mare al più sperimentale Alla cieca.
Claudio, il romanzo ha finito per soppiantare ogni altro tipo di scrittura. Gode di una grande diffusione, confondendosi con la più corriva letteratura di consumo. Quali sono le ragioni della sua durata e vitalità?
«In origine è un genere disprezzato, è la prosa che vorrebbe competere con la sublimità della poesia. Diventa importante quando sa cogliere, in una proiezione moderna, la ricchezza e la mutevolezza della realtà. Si contrappone all’epica, alla sua fissità, in cui persiste il senso di un significato. Si potrebbe dire che il romanzo è abbandonato dagli dei. Esprime la diversità e la disarmonia del mondo e il suo divenire, la difficoltà di inserire le storie individuali nella grande storia».
Questo accade in particolare quando sulla scena del romanzo irrompono, ai primi del Novecento, i grandi eversori: Proust, Kafka, Joyce, Musil, che scardinano le strutture del romanzo realista ottocentesco.
«Sono gli autori, come li ha definiti Raffaele La Capria, di “capolavori falliti”, non perché siano artisticamente incapaci, ma perché hanno sentito la necessità di assumere su di sé il disordine del mondo. Coltivano, in modi dissimili, le poetiche dello sconquasso...».
Da allora il romanzo è destinato a occuparsi soltanto di sconquassi, di realtà perturbate?
«Ovviamente no. Ma non si può fare finta che non sia successo niente nella percezione del mondo. Non soltanto la letteratura, ma l’arte figurativa, la musica, la scienza avvertono che tutto è diventato più instabile, esige nuovi strumenti rappresentativi e conoscitivi. C’è una frattura che non si è risanata, non si è ricomposta in una nuova classicità. Il confronto con “L’urlo” di Munch non può essere evitato. E questa condizione si riverbera nella problematica duplicità della scrittura: la cosa infatti è uguale al come».
Come si manifesta questa duplicità nel percorso così ricco e variato della tua scrittura?
«Ci sono gli scritti in senso lato giornalistici, gli interventi di natura etico-politica che esigono un discorso paratattico, a definizioni chiare e nette, e ci sono i romanzi o le opere teatrali che intendono riprodurre il groviglio della realtà in una prosa più elaborata e complessa».
Tornando ai grandi innovatori. Non hanno fatto tabula rasa di scrittori che conservano certe componenti del romanzo realista. Penso alDottor ZivagooIl Gattopardo, usciti proprio negli anni in cui si affermava la morte del romanzo tradizionalmente inteso. Non sarà che il genere romanzo è ricco di astuzie, di sotterfugi, che soltanto un lettore avvertito può scoprire mettendone in luce la novità?
«Un giorno ebbi occasione di intrattenermi con Isaac Singer, uno scrittore che amo molto. Mi azzardai a dirgli che i suoi racconti erano “ottocenteschi”. “Scrivo quel che so scrivere” mi rispose imperturbato. Feci ammenda affermando che io ero soltanto un critico, lui un genio. Mi congedò con una sonora risata. In realtà esistono scrittori che scrivono con la testa e altri con la mano. Credo che un grande scrittore scriva sempre, almeno in parte, con la mano, partendo da un’oscurità che è la fonte della creatività».
Prendiamo Beppe Fenoglio. A prima vista, può parere soltanto uno scrittore di guerra. Ma la sua scrittura è tramata di rimandi biblici e omerici...
«Fenoglio, senza proporselo, diventa uno scrittore epico, il cantore di un mondo che conserva una sua compatta totalità. Sembra un autore antico, e con questo non intendo diminuirlo, possiede una innocenza irreperibile in altri scrittori».
Il romanzo è un composto instabile e dotato di una voracità inclusiva. Forse sarebbe più giusto parlare di narrativa, che d’altra parte contrappone millenni di vita ai pochi secoli del romanzo propriamente detto.
«E’ vero. La narrativa sopporta una mescolanza dei generi, che corrisponde alla mescolanza della vita. Include dunque la saggistica in tutte le sue varietà, che deve avere una sua misura, uniformarsi alla voce riconoscibile di un testo».
Il narrare sembra appartenere a una naturale disposizione dell’uomo, fin da quando il narratore orale raccoglieva gli ascoltatori intorno a un fuoco o in una stalla.
«Sotto qualsivoglia forma è destinato a durare. Secondo la religiosità chassidica, ha addirittura un valore sacrale, rafforza lo spirito della comunità. E non dimentichiamolo, i fondatori delle grandi religioni, incluso il buddhismo, sono eccezionali narratori».