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 2014  aprile 01 Martedì calendario

QUANTA FARINA NEI SACCHI DEL MULINO


Senza il forno della nonna Stella, oggi non ci sarebbe il Mulino. O chissà cosa sarebbe diventato. Perché se Luigi Pedrazzi si fosse tenuto per sé l’eredità dello zio Emilio, quella del prestigioso marchio bolognese che quest’anno compie sessant’anni sarebbe stata davvero un’altra storia. «Non avevo bisogno di quei soldi», racconta Pedrazzi, 86 anni, l’unico sopravvissuto dei fondatori e voce autorevole del cattolicesimo democratico. «Facevo il professore in un liceo e anche mia moglie insegnava: ce n’era abbastanza per tirare su i figli. Li regalai alla società editrice, che così evitò la chiusura. Ma il merito è di mia nonna Stella, che aveva fatto una discreta fortuna vendendo i tortellini alla Real Casa inglese».
Ma fu lei professor Pedrazzi a inventarsi il marchio del Mulino?
«No, l’idea venne al più ubriacone di noi, ma non escludo che il mio forno di famiglia in via Santo Stefano l’avesse influenzato un po’. Non si dimentichi che siamo in Emilia. L’idea era che ci potessero essere grani diversi, la semola e la farina bianca, una pluralità di semi che restituiva anche la dialettica del nostro gruppo tra cattolici, liberali e socialisti. Provenivamo tutti dal liceo Galvani e volevamo costruire una nuova cultura democratica. Soprattutto volevamo evitare nomi ideologici, sul genere libertà e giustizia e altre nobilissime cose».
Ma perché?
«Noi con la Resistenza non c’entravamo nulla: all’epoca avevamo i pantaloni corti e sarebbe stato ingiusto attribuircene il merito. Il dopoguerra fu il nostro Sessantotto: eravamo postfascisti e ci buttammo alla scoperta del nuovo mondo, oltre Croce e oltre Gramsci. Nel 1951 fondammo la rivista. E tre anni dopo nacque la casa editrice».
Nella città più rossa d’Italia.
«E difatti Togliatti ci guardava con curiosità. Eravamo cattolici ma non democristiani, laici ma non laicisti, aspramente critici dell’Unione Sovietica ma non anticomunisti. Uno strano soggetto, che per giunta attingeva ai finanziamenti americani. I comunisti malignavano, ma noi con quei soldi traducevamo testi importanti della sociologia e della politologia anglosassone, ancora debolissime nella nostra cultura. Il catalogo includeva anche scelte europee: da Hirschman a Schlesinger, da Aron a Morin. Così Togliatti strigliava i suoi: ma siete matti a sputare nell’occhio dei mulinisti... ».
Le scienze sociali salivano che in cattedra.
«Il merito era di gente come Nicola Matteucci, storico delle dottrine sociali, o di Ezio Raimondi e Pier Luigi Contessi, entrambi letterati, o di Antonio Santucci, storico della filosofia. In quel gruppo non c’era nessun sociologo, politologo o economista. Sarebbero arrivati più tardi, svolgendo un ruolo importante. Si facevano scelte culturali e quindi politiche senza badare ai propri interessi, privati o accademici».
Il Mulino si distinse fin dagli inizi per un’apertura internazionale, ma il vertice editoriale in questi sessant’anni è sempre rimasto rigorosamente bolognese. Come lo spiega?
«E lei si sorprende? La vocazione internazionale fa parte della storia di Bologna. Abbiamo l’università più antica d’Europa e grazie a monsignor Lercaro e a Dossetti il Concilio Vaticano II praticamente è nato qua. Poi, certo, la convivialità e l’amicizia sono caratteristiche della casa editrice».
Le grandi crisi sono state risolte sempre a tavola.
«Soprattutto con Barbieri, l’editore del Carlino checifinanziava. Un acceso anticomunista. Non si capacitava che uno come Matteucci si fosse laureato con una tesi su Gramsci. Con Giovanni Evangelisti cercavamo di fargli digerire le nostre virate a sinistra. Ma a un certo punto si stufò. Accadde nel ’64. Durante un incontro pubblico, Nino Andreatta gli aveva dato “Ma chi è quel frocio?”, chiese l’editore. “È uno del Mulino”. Tuoni e fulmini. Io ero a New York con Fabio Luca Cavazza quando arrivò un telegramma: “Barbieri chiude Mulino. Tornate subito”».
E lì intervenne l’eredità salvifica dello zio Emilio.
«Sì, ma Barbieri non voleva cedermi un bel nulla: per lui ero l’amico di Dossetti e dei comunisti. Così fu istituita una commissione che avrebbe dovuto vigilare sull’indipendenza politica del Mulino. L’editore finalmente cedette le sue azioni. Ma poco dopo i soldi finirono, e io dovetti andare da Aldo Moro».
Perché Moro?
«Era venuto diverse volte alle nostre riunioni del mercoledì. Intelligentissimo e noiosissimo. Mi ricevette a Palazzo Chigi con grande cordialtà. “Il Mulino non è cosa di cui io possa dire a Freato”. Brivido sulla schiena. “Ma cercherò di procurarvi i cento milioni”. Un mese dopo fui chiamato dal cardinal Pellegrino di Torino: i soldi erano arrivati dalla Fiat. Molti anni più tardi ci avrebbe dato una mano anche Mario Formenton. Ma quando la famiglia vendette parte delle proprietà a Berlusconi fummo avvertiti per tempo: ricomprate le nostre azioni anche a un prezzo stracciato, se no rischiate di ritrovarvelo in casa. Comprammo immediatamente ».
Berlusconi avrebbe conquistato presto Palazzo Chigi. E al Mulino alcuni professori vi accusarono di non tenere in giusto conto la nuova
destra.
«Brave persone, ma non avevano quelle facoltà di reazione che avevamo noi. Un’altra generazione. Noi eravamo saliti sui tetti a vedere le bombe. Le guerre in questo sono utilissime. Fanno capire tante cose. E danno coraggio».
Per decenni il Mulino è stato fucina della classe politica di centro-sinistra. L’Ulivo è nato qui.
«Sì, da noi Giugni e Mancini fecero lo Statuto dei Lavoratori. Prodi fu portato da Andreatta e io fui felice di cedergli la presidenza della Società. Se il Mulino è arrivato a sessant’anni è perché ha avuto buoni compagni di viaggio, oltre che ottimi padri e zii. Altiero Spinelli ci entusiasmò con il suo europeismo. E Dossetti è stato una presenza fondamentale ».
Eravate amici?
«Mi chiese un consiglio una sola volta, quando Moro era nelle mani dei brigatisti. Voleva mandare una lettera invocando la trattativa, ma io lo trattenni. L’indomani fummo svegliati dal giornale radio con la notizia dell’appello di Paolo VI. “Meno male che non ho spedito nulla”, mi disse don Giuseppe. Poi però lesse bene le parole di Montini, che specificava: “senza nessuna concessione”. S’oscurò in viso: “Uhm, va bene che il Papa è proprio un doroteo, ma questa frase è stata aggiunta da Andreotti”».
Non c’è il rischio che il Mulino perda quella che è stata la sua ragione sociale?
«Forse sì, quel che poteva fare l’ha già fatto. Ma in parte continua a farlo, mettendo in circolo nuove idee e bei libri di storia. Se gli italiani avessero più soldi, sarebbe anche una casa editrice florida, ma purtroppo il mercato va sempre peggio. Diciamo pure che quei trenta parassiti potrebbero darsi da fare. A chi alludo? Ai professoroni del Mulino. Potrebbero pure impegnarsi a comprare qualche libro: duecento copie a titolo. Ci è riuscito un monaco mio amico e non ci riescono questi altri?».
Il suo stato d’animo dopo sessant’anni?
«La storia non è andata proprio come speravamo, ma ci abbiamo provato. Con coraggio e soprattutto con disinteresse».