Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 1/4/2014, 1 aprile 2014
IL MITO DELL’INNOVAZIONE
IN PRINCIPIO era la Rivoluzione. Combatteva non solo contro il Regime (lo stato delle cose esistente, lo «statu quo») ma anche contro il Riformismo. Più moderato della Rivoluzione ma più spinto ed entusiasta del Riformismo è da considerarsi il Progressismo. La Rivoluzione vuole abbattere, il Riformismo vuole cambiare e migliorare quel che non va (come traspare dal suo alias anni Settanta: «Migliorismo»), il Progressismo vuole muoversi costantemente «al passo con i tempi», secondo l’ormai consunta bandiera del «Nuovo che avanza». Ma tutte queste oggi appaiono etichette impolverate, vecchi — ismi che hanno conservato ben poco della loro antica pregnanza. Progressismo e Riformismo sono termini da convegno pensoso. Quando si vuole fare colpo sull’opinione pubblica si parla piuttosto di Innovazione. Càpita così in politica, in economia, in tecnologia, nel marketing, nell’industria, ma anche nella cultura, nelle arti, nello spettacolo, nella didattica, nel giornalismo, nei media. In una parola: ovunque.
A quali pensieri e forze del mondo cercano di dare nome questi nomi? Possiamo prenderli come miti, divinità di un Pantheon contemporaneo, il cui Zeus è il Nuovo e i cui dèi si chiamano Creatività, Innovazione, Forza, Energia, Cambiamento, Giovinezza. Aggiornamento. Nell’immaginario contemporaneo, politico e non solo, la grande battaglia si svolge su questo terreno.
Osservando questi termini più da vicino, ci si rende conto di due fenomeni. La Rivoluzione è ritornata, ma non è più la concezione estrema dell’Innovazione: ora è la sua iperbole. Una specie di superlativo come quelli che usiamo così spesso per dare enfasi. L’iPad o i Google Glass non sono presentati come innovazioni, ma come vere e proprie rivoluzioni, di quella profondità che fa esclamare: «Nulla sarà più come prima». «Rivoluzione» è stata una parola d’ordine anche berlusconiana e, all’interno di quella mitologia, conviveva con una figura come Gianni Letta nel ruolo-chiave di sottosegretario a Palazzo Chigi. In questa sua accezione enfatica e iperbolica la rivoluzione può infatti andare d’accordo perfettamente coll’Ancien Régime.
Il secondo fenomeno si osserva nelle desinenze: a tramontare sono Progressismo e Riformismo, a tenere il campo è l’Innovazione. La polemica contro gli — ismi è finita, sono tramontati ancor prima delle ideologie (e nella bellicosità vintage berlusconiana contro il «comunismo», il focus propagandistico era contro la desinenza «ismo» più che contro la radice «comun—»: l’affondo, efficace, era contro un apparato e una tradizione più che contro un’ideologia). Un — ismo è un sistema di pensiero; «innovazione » ha più l’apparenza di un fatto: un fatto non ancora compiuto, un fatto nel suo compiersi, ma un fatto.
Se tutti sono per l’Innovazione e neppure i conservatori tengono alla Conservazione, di cosa stiamo parlando? La disputa politica, e non solo quella, oggi è tutta sulla genuinità del Nuovo. La mitologia della creatività assegna il valore massimo alla tensione verso il nuovo, ma «nuovo» è un aggettivo che ha diversi significati e applicazione. Non è lo stesso se viene anteposto o posposto. Renzi è un nuovo politico o un politico nuovo? Il Jobs Act è un restyling di vecchie politiche liberiste (senza neanche più un «neo—») o una vera novità? Le province saranno abolite o resteranno lì dove sono, mascherate da qualcos’altro?
La retorica destruens di Beppe Grillo, per esempio, è tutta tesa a negare la novità di ciò che nuovo almeno sembra. Il lavoro di Matteo Renzi sull’eloquio, sui gesti, sul modo di apparire, sul modo di proporre è tutto teso a sembrare nuovo. Le slide e PowerPoint sono una risorsa espositiva assestata: ma è anche vero che nella politica italiana non si è erano visti mai. Infografica, discorsi a effetto, tweet, moduli comunicativi portati in politica da altri ambiti hanno questa funzione: assegnare una credibile marca di novità alle proprie azioni. Se l’opinione pubblica crede nuovo quel che si propone (qualsiasi cosa esso sia), è fatta: si acquisisce consenso per proseguire la propria azione. Del resto, in cosa è consistita — di fatto e in effetti — la supposta rivoluzione berlusconiana?
Apparire non è, di per sé, essere. Nella società contemporanea, però, è proprio l’«apparire nuovo» a essere privilegiato. Per questo il richiamo alle esperienze del passato, alla «tradizione riformista» e all’«anima progressista », non ha presa: perché si tratta di tradizione e anima, sono espressioni che parlano di continuità e non di stacchi, di identità e non di trasformazioni. Ciò che è nuovo, ma non appare tale, non ha valore nel discorso della politica come, in genere, in quello sociale.
Il problema casomai è che il mito dell’Innovazione deve continuare a innovare persino se stesso: cambiare nome e forme, perché come diceva un film di qualche tempo fa (Take This Waltz) «New things get old». Parlava dei nuovi amori, ma l’invecchiamento è la sorte di ogni innovazione e lo sapeva persino Mao Zedong, con quel suo mitologico ossimoro sul permanere della rivoluzione. Sarà così almeno sino a che daremo più valore all’apparire che all’essere.
Fuori dalla sua propria mitologia, insomma, l’Innovazione deve dotarsi di criteri e parametri di verifica e di efficacia, il che equivale, prima o poi, a passare dall’apparenza all’apparato. È il punto a cui si trova oggi la politica renziana, nel suo istituirsi: il varco a cui l’attendono non solo gli avversari ma anche coloro che sono entrati nel vasto campo magnetico di interesse (e, appunto, aspettativa) che l’ex-sindaco ha saputo abilmente attivare attorno a sé e al suo entourage.