Salvatore Maria Righi, l’Unità 1/4/2014, 1 aprile 2014
SARTORIA SAN VITTORE, AGO E FILO PER UNA VITA OLTRE LA CELLA
I loro primi clienti sono stati, in alcuni casi, vecchie conoscenze, da una parta e dall’altra della barricata. Erano e sono molti gli avvocati e i magistrati che si comprano una toga made in carcere, ordinandola rigorosamente su misura dai laboratori di sartoria delle detenute che si trovano negli istituti di San Vittore e Bollate. Uno shopping dal significato altamente simbolico. «Bisogna dare atto della loro sensibilità, una volta che abbiamo fatto diciamo sensibilizzazione presso il relativo tribunale. Un tipo di acquisto per il quale vengono evidentemente stimolati e verso il quale sono molto ben disposti».
Alessandro Brevi è un bravo costumista teatrale che una ventina di anni fa, insieme ad alcuni amici impegnati in vario modo nel sociale, ha costruito un progetto che è all’inizio di questa storia. Correva il 1992 quando hanno fondato a Milano la cooperativa Alice che, fin dalla sua nascita, si è occupata di formazione professionale in carcere. L’idea era semplice: insegnare alle detenute l’arte di confezionare vestiti e più in generale il mestiere della sartoria. Dare quindi una prospettiva e un orizzonte in più a quelle donne e a quelle ragazze che dalla cella, prima o poi, avrebbero dovuto uscire. La parola magica era, ed è ancora, «reinserimento». Ma nel caso della cooperativa Alice, è anche la mission per chi è nata, e la spina dorsale di quella che è diventata nel tempo un’impresa artigiana e commerciale a tutti gli effetti, la Sartoria San Vittore che in questi giorni tra l’altro ha presentato la nuova collezione. Hanno cominciato, come spesso accade e come si dice, con due cuori e una capanna: un laboratorio di ago e filo a San Vittore, «grazie alla lungimiranza e alla disponibilità dell’allora direttore Luigi Pagano», ricorda Brevi. Nel 1996, quattro anni dopo, un secondo laboratorio, ma all’esterno, per poter impiegare e coinvolgere anche le detenute che beneficiano del regime di semilibertà. Alcune di loro, poi, hanno proseguito nel cammino uscendo semplicemente da quella bottega e aprendone una in proprio.
Nello stesso anno, “Alice” ha poi raddoppiato la presenza oltre le mura e i cancelli del carcere, aprendo un laboratorio in quello di Opera che poi si è trasferito col tempo nella struttura di Bollate, che è stata concepita ed è nata come un posto dove la galera si trasforma in una palestra di vita e di futuro, per quando si apriranno le porte della cella. Un carcere modello, con celle aperte, palestra, scuola e ufficio postale, con la «vigilanza dinamica», dove non si è mai suicidato nessuno e – caso rarissimo nel nostro Paese – dove non c’è sovraffollamento. C’è anche un istituto alberghiero, e quindi il laboratorio della cooperativa Alice non poteva mancare in un istituto di pena che fa del lavoro il motore propulsivo di chi attende la libertà dietro le sbarre. Con la collaborazione del Comune, che nel corso del tempo ha istituzionalizzato il suo rapporto con la struttura, è nato poi un negozio in centro che proprio in questi giorni ha cambiato sede, trasferendosi nella zona di Porta Genova. Nello store vengono venduti i capi di abbigliamento realizzati con la collaborazione della stilista Rosita Onofri. Una linea spedalizzata nel jersey e la novità di una collezione di abiti da sposa. Prezzi in linea col mercato, vuol dire su 150-200 euro in media, trattandosi di una produzione artigianale curata nei dettagli (quindi con la filosofia del pochi, ma buoni) ed eseguita, dall’inizio alla fine, dalle mani della stessa persona. «Che poi è anche il modo migliore per responsabilizzare e gratificare le nostre detenute, se posso chiamarle così, che vedono prendere corpo dal loro lavoro, pezzo a pezzo, un capo intero» spiega Brevi.
«Non tragga in inganno il fatto che lavorano nel carcere e sembra quasi volontariato» puntualizza poi il pioniere. «Le ragazze sono impiegate con contratti di tirocinio, con borse formazione e, altre forme contrattuali accessibili ad una struttura come una cooperativa sociale, ma è un lavoro a tutti gli effetti. E come in tutti i mestieri, conta l’esperienza e l’abilità, le qualità individuali. Perché alla fine, al netto degli scopi sociali e umanitari, nessuno è fesso e quindi nessuno comprerebbe un vestito fatto male, o che non gli piace» sintetizza Brevi, il quale spiega invece che nonostante i tempi di crisi, «e nonostante il fatto che ci serviamo di materie prime di qualità, come filati e tessuti italiani, e non lavoriamo a prezzi da cinesi, il negozio ha una sua clientela e un buon fatturato. Non facciamo fatturati miliardari, per capirci, ma le cose vanno bene, ringraziando il cielo».
Di acqua sotto ai ponti della cooperativa ne è passata parecchia, da quando le detenute si occupavano di costruire e rifinire i costumi teatrali e cinematografici per clienti come Rai, Mediaset, ma anche la Scala o il Regio di Parma, oltre che per spot e pubblicità. «Un tipo di attività che era ispirata direttamente alla mia professione, ma che poi col tempo è cambiata e ha virato sulla sartoria in senso ampio» spiega Brevi. Chissà in quanti film, o in quante commedie, o per non parlare di réclame tv, le detenute avranno riconosciuto i costumi e gli abiti che hanno cucito con le loro mani. Quello che però praticamente manca, oltre ai contributi pubblici che sono stati drasticamente ridotti, «per non dire azzerati», sono le commesse di lavoro dalla pubblica amministrazione (previste dalle leggi del settore, ricorda Brevi), e che permettono a cooperative come Alice e alle «sue detenute» di guardare con più fiducia nel futuro, dentro e fuori dalla cella.