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 2014  marzo 31 Lunedì calendario

CANNABIS TERAPEUTICA, LA GRANDE BEFFA


Chi è in ritardo si affretta a legiferare, ma la corsa delle Regioni verso la regolamentazione della cannabis terapeutica rischia di rimanere un’operazione di facciata, se non peggio un grande flop ai danni delle speranze dei malati. C’è più di una ragione per questo fallimento, ma quella più evidente la spiega con una risposta l’assessore alla Sanità della Sicilia. Luisa Borsellino, ultima figlia del giudice ucciso dalla mafia, è la persona cui Crocetta ha affidato il compito di rendere possibile la distribuzione gratuita nell’isola di farmaci a base di cannabinoidi. «Stiamo valutando la possibilità di poter stipulare convenzioni con gli istituti autorizzati a produrre medicinali con il principio attivo. Certo, questa è una norma inapplicabile, un’ipotesi inesistente al momento, perché in Italia è vietato». Luisa Borsellino e i suoi colleghi di Abruzzo, Toscana, Veneto, Puglia insieme a tutte quelle Regioni che hanno inserito nella legge la possibilità di produzione della materia prima, non sono dei pazzi. Sanno perfettamente che in Italia non si può coltivare la cannabis, che il decreto firmato pochi giorni fa dal ministro Lorenzin ha ribadito questo divieto mettendo quasi una pietra tombale sulla possibilità reale di applicazione delle loro leggi, ma spingono silenziosamente verso una soluzione, l’unica possibile, l’unica che permetterebbe loro di applicare ciò che è già scritto da norme nazionali. Cioè che in Italia l’uso terapeutico dei cannabinoidi è lecito e regolamentato, anche se mal regolamentato.

I NODI
Avere una legge regionale significa avere accesso gratuito al farmaco, come avviene altrove. Ma a fronte di una spinta in avanti per mettersi al pari con l’Europa, le leggi regionali non riescono a superare i gap. Che sono nell’ordine: i costi elevatissimi dei farmaci, le difficili procedure per ottenere i medicinali che vengono importati dall’estero, la mentalità ma anche la spesa che suggerisce alle commissioni d’esperti, che devono stilare la lista delle patologie per cui la cura è gratuita, di restringere al massimo la casistica bruciando le nuove normative, e infine ancora la diffidenza di ceni medici davanti all’esiguo numero di studi. Tutto questo messo insieme fa sì che al momento, per gli esperti, le associazioni e i pazienti, siamo davanti a un fenomeno fatto solo di buone intenzioni e nessun beneficio reale.
Ma andiamo con ordine. Allo stato è una jungla di leggi o proposte di legge, tutte diverse, alcune più «moderne» altre meno. Solo nell’ultima settimana ben due Regioni hanno approvato decreti in tal senso: Umbria e Sicilia. Altre due hanno avviato la discussione in giunta e si apprestano a varare un testo normativo: Basilicata e Lazio. Quella della Sicilia, l’ultima, è stata salutata come la legge dell’avanguardia. «L’incidenza della sclerosi multipla nell’isola – spiega Luisa Borsellino – è sopra la media nazionale. Ora abbiamo fatto una delibera che ci mette in linea con il contesto normativo nazionale, ma che offre la possibilità ai cittadini siciliani di avere cure a carico del Servizio sanitario. Prima non era così. Si trattava di combattere pregiudizi anche sul piano etico». La legge siciliana prevede che le prescrizioni siano fatte da specialisti all’interno di strutture sanitarie (i medicinali sono acquistati nella farmacia ospedaliera) e un successivo percorso terapeutico che potrà essere eseguito anche a domicilio. E prevede, eventualmente, convenzioni con strutture autorizzate a produrre. Stesse regole per l’Umbria dove la Terza commissione di Palazzo Cesaroni ha dato parere favorevole e ora attende il voto finale dell’Assemblea legislativa. Anche qui la clausola: «La Giunta regionale potrà stipulare convenzioni con i centri e gli istituti autorizzati, ai sensi della normativa statale, alla produzione o alla preparazione dei farmaci cannabinoidi». Tutto bene? Non esattamente, perché in assenza di «normativa statale» i costi elevatissimi dei farmaci che vengono importati dall’estero ricadono sugli enti locali. Si è già visto, ad esempio, come il Sativex unico medicinale autorizzato dall’Aifa (oggi a carico del Ssn senza bisogno di leggi ad hoc) non viene distribuito proprio per mancanza di fondi.

LA RIVOLTA
La rivolta è partita da Firenze dove ha sede l’unico centro autorizzato a coltivare la canapa, ma non a produrre farmaci, lo stabilimento chimico farmaceutico militare. Monica Sgherri, capogruppo Federazione della Sinistra-Verdi della Toscana, ha presentato nei giorni scorsi una proposta di legge per rafforzare la normativa toscana approvata nel 2012 e non ancora operativa. Sulla stessa scia del consigliere regionale Enzo Brogi e della responsabile Welfare e Sanità del Pd Toscana Stefania Magi, hanno chiesto di aprire il Farmaceutico militare: «Bisogna far cadere un tabù dice la Magi – . La produzione di cannabis e la preparazione di farmaci derivati, sotto la garanzia dei militari del Farmaceutico, è un’opportunità che renderebbe sicura anche in Italia la produzione e la distribuzione». A costi molto inferiori. Anche il senatore Manconi ha presentato una petizione in tal senso. Ma perché è necessario questo passaggio? Perché le Regioni possono legiferare quanto vogliono, ma se non c’è un intervento dell’Agenzia del farmaco, o del governo, tutto si arena sulla questione fondi a disposizione. Lo spiega bene Giorgio Bignami, presidente del comitato scientifico Forum droghe, ex dirigente del Servizio sanitario nazionale. «Le Regioni possono mettere ticket, stanziare somme per l’acquisto di un farmaco, ma non possono decidere se un farmaco è giusto darlo o meno. Per questo c’è l’Aifa e fino ad oggi l’Aifa a parte il Sativex che è carissimo, non ha registrato medicinali a base di cannabinoidi. Cosa succede allora? «Succede che siamo in un groviglio normativo – spiega Bignami. E le Regioni possono fare poco. Possono autorizzare un percorso, cioè una prescrizione medica, che passa da un ok del ministero che poi passa alla asl per l’autorizzazione e alla farmacia che procede all’acquisto all’estero. Se ci sono i soldi. È una trafila che dura mesi. E le Regioni possono solo finanziare questa spesa per i pazienti cui è riconosciuto il bisogno. Ma non altro. Insomma, ci può essere tutta la buona volontà del mondo, ma non basta». C’è infatti un’altra possibilità, cioè che la palla passi ai medici – spiega Bignami – Che i medici facciano prescrizioni «off label», cioè al di fuori delle malattie indicate nel bugiardino, per spiegarlo in brutta. Ma è vietato e c’è un problema di responsabilità in caso di effetti collaterali tutte a carico del medico.

I MEDICI
Il problema degli off label non esiste dice Francesco Crestani, medico di Rovigo, presidente dell’Associazione Cannabis terapeutica che raccoglie professionisti ed esperti del settore. «C’è il Sativex che è possibile usare solo per la sclerosi multipla e non si sgarra e c’è l’infiorescenza, il galenico, che si può prescrivere grazie alla legge Di Bella». E le leggi? «Il fatto è che qui si è fatta una legge senza partire dall’esperienza dei medici – spiega Crestani –. Prima c’è l’esperienza poi le norme. Le leggi regionali sono arrivate quando in Italia i medici non sono ancora sufficientemente informati, preparati. C’è chi considera l’uso della cannabis un’arma in più, chi invece la sente come un’imposizione. Sarebbe importante lavorare su quella parte del mondo medico che ha una certa ritrosia. Perché i farmaci li prescrivono i medici, non le leggi». Crestani spiega anche che a rendere difficile questo approccio è anche la mancanza di studi scientifici che non ci sono né mai ci saranno visto che le case farmaceutiche non hanno interesse a spendere le migliaia di dollari che vengono spesi quando esce un nuovo farmaco. Dice, in sostanza, ma chi assicura che poi i medici prescriveranno questi farmaci? «Questa è una terapia che si è iniziata a usare negli anni ’70, è giovane. L’esperienza ci viene dai malati. Io stesso imparo oggi da molti dei miei pazienti il tipo di dosaggio. Ci sarebbe voluta più informazione. I medici non sono pronti».

I REGOLAMENTI
Però questi non sono gli unici problemi: perché anche dove si è legiferato con grande anticipo, già dal 2012, a distanza di anni, mancano ancora i regolamenti attuativi, cioè le norme che dicono per quali malattie è possibile prescrivere i cannabinoidi. Quelli che sono sulla carta, ma non ancora licenziati (vedi Toscana, Veneto e Marche), restringono talmente l’elenco delle patologie da rendere impossibile l’accesso alla terapia. Lo denuncia Monica Sgherri, capogruppo Sinistra-Verdi Toscana: «Praticamente hanno vanificato la legge. La commissione che doveva mettere nero su bianco le linee guida ha limitato l’erogazione dei farmaci alla terapia del dolore ed escluso tutte le altre patologie. Non si riesce a cambiarlo». Lo stesso accade in Veneto dove il lavoro della commissione non è ancora concluso ma sembra che l’uso della cannabis sarà limitato ai dolori neuropatici, ai pazienti affetti da Hiv, ai malati terminali escludendo tutti gli altri. Escludendo tutti gli altri.