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 2014  marzo 31 Lunedì calendario

NOI ERGASTOLANI NELLE CELLE SENZA PORTE


Augusta è un isola con un ponte, un lungomare, il porto, le fabbriche, sopra questa innocua prospettiva svetta il carcere di Brucoli, Augusta, provincia di Siracusa. Qui incontriamo Boccaj. Lui esce ogni mattina, è un aiuto sacrista, pulisce tutte le parrocchie di Augusta. Poi si ferma in casa con la compagna, mangiano assieme, torna in carcere a Brucoli, nel pomeriggio. Boccaj Arsen è di Valona, 38 anni, ergastolo per concorso in omicidio. Una donna, una prostituta. Boccaj maledice il giorno in cui ha prestato la macchina a un parente. Il parente faceva la tratta dall’Albania, carne umana, donne. Boccaj Arsen era a posto. Boccaj dice che è innocente. Lo incontriamo nei corridoi del carcere di Brucoli, il carcere aperto, le celle aperte, da mattina a sera, salvo per l’ora della conta fissata alle 15 e 30. Boccaj avanza a disagio tra una parete e l’altra dove affiorano i suoi murales. Sono senza colori, ci sono uomini seduti a un tavolo, uomini antichi, trapassati, la luce è scostante; le ombre prevalgono sul resto, la mestizia in luogo di un sole che non sarà mai tradotto, riproduzioni di foto in bianco e nero, ex penitenziari. Sono i disegni di Boccaj, preferisce i paesaggi ai ritratti. Boccaj ha paura dei ritratti, diventano prove fasulle, dove leggere l’animo umano e ingannarlo.
Di che colore è la nostalgia, Boccaj?
Non verde come le foreste di conifere buie e segrete, ma viola, la nostalgia è viola come il tramonto dice Boccaj sul davanzale di una finestra. Boccaj similmente al Meursault di Camus, non un volgare assassino, estraneo a sé stesso, docile alla pigra indifferenza del mondo . Innocente forse. Viene dai falansteri di un quartiere popolare di Valona, ma è andato via presto. Boccaj aveva questo talento - disegnava - e lo aveva dimenticato, lo ha ritrovato in carcere. E dunque vero che quando si è perso tutto è l’ora che tutto torna. La madre è una beghina nera e antica come gli uomini e le donne dei paesaggi di Boccaj. Sei fortunato, gli ha detto, tu non sei morto come i tuoi compagni nella rivoluzione. Con le due bombe sopra il frigo, il padre lo accolse un giorno di caos e di polvere, con le lacrime agli occhi, nel falanstero di quel condominio miserevole, il mausoleo del comunismo franato sull’anarchia che era ancora gente, e non popolo, confusa e rappresa nelle piazze, in strada. I compagni della rivoluzione erano strafatti così sapevano uccidere. Boccaj Arsen detenuto ammesso al lavoro esterno.
Alberto Termini è catanese. Cumulo di pena: 26 anni. Spaccio e la rissa con un morto. Non ha ucciso nessuno, dice. Entra in carcere nel maggio del 2004, a piazza Lanza, erano le undici di sera. Alberto non sa spiegare perché a un certo punto della sua vita ha ceduto al male, se poi sia così esatto distinguere il bene dal male e che sia esattamente vero che chi cede all’uno o all’altro sia migliore o peggiore di chi non cede all’uno o all’altro. Alberto ha 35 anni.
E forse ancora vero che quando si è perso tutto è l’ora che tutto torna? Così Alberto canta nel coro polifonico del carcere di Brucoli, canta Era di maggio, ma quella preferita, quella che vogliono i compagni di cella è Brucia la luna: brucia la luna come lu me cori/ in cielo/ l’anima chianci addulurata/. Il ritornello lo cantava al mercato dove avevano un banco con il padre che era pescatore, raccoglitore di telline, un giogo da calare sulle secche di Vaccarizzo o lungo la costa, una gestualità ossessiva e faticosa. Alberto vorrebbe evitare che il figlio sbagliasse un giorno, perché arriva un giorno in cui bisogna interrogare più di tutto la ragione. Perché di ragione e di istinto si tratta. Alberto studiava dai salesiani, giocava a calcio, cantava canzoni neomelodiche, il sentimento stesso di un quartiere popolare. La nostalgia: è tornare da un permesso, dice, tornare con in testa un campo di calcio. La nostalgia è guardare fuori, quel poco che vedi, immaginarsi a cavallo di uno scooter sul lungomare della plaja.
Erano settanta ergastolani a Bartolo Longo, carcere di Rebibbia. C’era anche Salvatore Capuano. Quanti carceri hai girato, Salvatore? Lui è il numero 9999, cioè è un fine pena mai, a ripeterlo una due volte si può diventar matti. Quando è andato in permesso a Napoli ha capito che della vita di prima e persino dell’uomo di prima non era rimasto niente, tornò in cella a Brucoli. Per questo Salvatore ha sbroccato, detto in gergo, ha spaccato tutto: un giorno voleva morire. Ma lo hanno salvato, nel carcere di Brucoli. Salvatore ha 51 anni. Nell’auditorio del carcere giura che qualcuno piangeva, mentre sul palco enunciava agli astanti, con la sua bella voce rauca: “Sono Salvatore, quello di una volta, ergastolano. 9999”. Di Posillipo. Il padre era un impiegato, una buona famiglia dice. Rapina con un morto.
Sediamo in biblioteca nel carcere di Brucoli. Non contiamo gli anni di galera, tanto non finiscono. Salvatore lavora nelle cucine, i suoi pensieri sono brevi e circostanziati, anzi governati in modiche stanze. La memoria è un segreto, il guizzo e il coraggio del recluso, o una spada conficcata nel fianco. Così Salvatore recita i suoi versi: “Sono come una tomba che mi vengono a pregare”. Come a Pianosa dice, in Sardegna, il carcere con il cimitero dentro, perché una volta non si usciva mai, dice. Salvatore Capuano ha convertito gli uomini in uomini, automi a esser sinceri o bestie che guaivano, quando a Rebibbia nel momento della rieducazione Salvatore conobbe i sepolti degli ospedali psichiatrici penitenziari. Guaivano al muro, la barba e i capelli strisciavano sul pavimento, i piedi nudi erano deformi. Convertiva gli uomini, uno per uno, acconciando con gentilezza quelle facce bianche, radendo le loro guance ispide - le labbra pallide mortificate - raccontando loro di una vita ancorché estranea e fugacemente ammirarla nel suo ostinato splendore oltre le grate, fuori i sepolcri di un manicomio. E mentre qualcuna si agitava ancora, creatura sepolcrale, qualche altra apriva gli occhi, qualche altra, creatura sepolcrale, tornava. Ecco cosa ha fatto Salvatore che teme le sue legioni, tormentato dalla paura che pressappoco è una supplica: “vorrei non essere nato”. E’ l’ultimo verso, il poeta è Salvatore Capuano che non sa leggere e non sa scrivere. 9999 nel carcere di Brucoli.