Elisabetta Ambrosi, Il Fatto Quotidiano 31/3/2014, 31 marzo 2014
HOSTESS, RICERCATORI, ARCHITETTI: NESSUNO È AL RIPARO DALLA CRISI
È giovane e curata, ti serve il caffé con un sorriso. E tu sorridi di rimando, come se la cabina di un aereo consentisse, almeno per un po’, di lasciare a terra gli incubi di poveri e sfruttati che popolano le nostre città. Ma Sonia, hostess di 28 anni, non lavora per la nota compagnia di volo low cost di cui indossa la divisa, ma per un’agenzia interinale che fornisce “materiale umano” alle compagnie aeree. Come racconta il sindacato FamilyWay, Sonia ha speso 3.000 euro per il corso di formazione, 325 euro per la divisa. Oggi non ha un contratto ed è pagata a ore: 15,33 euro per ora di volo, per uno stipendio di 1100 euro. Se è malata non guadagna e in più paga le tasse - dal maggio del 2012 - in due paesi.
Provate a distrarvi, leggendo le notizie sull’Ipad. Aprendo un importante sito di informazione, potreste incappare nell’articolo di Francesca, giovane neomamma. Scrive per diversi siti che fanno capo a un’unica società, con cui ha un contratto di collaborazione occasionale. Guadagna 20 euro per 7 pezzi (4 ore), 40 per 14 (8 ore): 2,85 euro a pezzo, calcola, mentre “la signora delle pulizie di mia madre prende otto volte tanto”.
Quando, infine, atterrate all’aeroporto, magari progettato da un’archistar milionaria, potreste pensare alla storia di Alessandra, architetta entrata nel 2009 in un prestigioso studio di progettazione internazionale. Oggi pratica la “libera” professione con partiva Iva, ma in realtà ha orari stabiliti (10 ore, sabato compreso), postazione fissa, assenze detratte dallo stipendio, obbligo morale di non lavorare con altri committenti, per 1700 euro al mese. Tante? “Provate a togliere 366 euro di Iva non scaricabile, 300 euro di inarcassa, 500 euro di affitto, spese per l’assicurazione, la formazione, il commercialista e l’ordine. Cosa rimane?”.
Se è il pubblico a sfruttare
Hostess, giornalista, architetto: tre lavori che vent’anni fa erano considerati prestigiosi e remunerativi. Oggi chi rientra in queste categorie, specie se giovane, è entrato nella fascia sempre più popolosa dei working poor. Quelli che un lavoro ce l’hanno, e quindi dovrebbero ritenersi fortunati rispetto ai colleghi Neet che non studiano né lavorano. E invece riescono a malapena a sopravvivere, persi in un girone infernale e ormai incontrollato di sfruttamento, lavoro dipendente mascherato da partita Iva, contratti parcellizzati. Dove il compenso arriva come un osso spolpato, senza più intorno contributi, tutele per malattia e maternità. Più che precari, come la politica continua genericamente a chiamarli, veri neo-schiavi.
Paola è una delle migliaia di precari della scuola. “Lo stipendio varia a seconda dei giorni lavorati: se lavoro un giorno, guadagno 40 euro, se non lavoro per una settimana consecutiva non ho la disoccupazione”. Tutte le mattine dell’anno Paola deve restare nella sua città, reperibile al telefono alle otto, per sostituire nel giro di dieci minuti un’insegnante che si assenta. “Se non rispondo, precipito in fondo alla graduatoria. L’altra mattina mi hanno chiamato alle 11.45 per un ingresso alle 12.30 in una scuola a 50 km da casa: come si può vivere così?”. La storia di Paola racconta di un ulteriore e inquietante tassello, e cioè il fatto che ormai il pubblico assomiglia sempre più al peggior privato. Vale per la scuola, vale soprattutto per l’università, oggi un terreno desertificato da tagli e blocco delle assunzioni. Francesca, ricercatrice sociale da dieci anni, sopravvive con un contratto di collaborazione con l’Università di Milano di poche centinaia di euro e deve continuare a pubblicare per avere chances di lavoro, “anche se ormai ai concorsi si presentano persone di 45 anni già abilitate come professori associati”. Monica, 900 ore di insegnamento agli stranieri alle spalle tra università, accademie e studenti Erasmus, continua a guadagnare dieci euro l’ora. E oggi si trova a competere con un girone di disperati costretti al volontariato coatto presso associazioni che si spartiscono il mercato dell’italiano agli immigrati, nell’indifferenza del ministero.
Anche nel settore sanitario specializzandi e medici sono costretti a lavorare sempre più ore e sempre per meno, tanto che spesso il privato è l’unico sbocco. “Ho 35 anni, sono un medico specialista con dottorato e master”, dice Filippo: “Come ricercatore prendo 1200 euro dall’Università, poi lavoro come patologo clinico in una clinica privata con partita Iva (tra i 700 e i 1200 euro): almeno dieci ore al giorno, più sera, e a volte notte e weekend”.
Ancora peggio se la passa chi, da privato, con il pubblico ci lavora. Come Laura, che ha una piccola società di ricerca: “I bandi pubblici prevedono budget sempre più leggeri, qui siamo ipercompetenti eppure guadagniamo 800 euro al mese, senza tredicesima ferie, tfr”. “Sono un’archivista specializzata, emetto fatture anche per cinquanta euro”, aggiunge Sara, “ma lavorare con un pubblico che ti paga in ritardo perché crede che la cultura sia un privilegio è umiliante”.
Dipendenti e non, tutti sottopagati
L’altro fenomeno di questa Italia dove il ceto medio lavorativo sta scomparendo è che dipendenti e autonomi finiscono ormai per assomigliarsi, sovrapporsi, confondersi. Il gap tra tutelati e non, che le famose riforme avrebbero dovuto avvicinare, si sta assottigliando: perché le protezioni stanno sparendo per tutti. I primi con stipendi che non crescono, oppure cassintegrati e “solidarizzati” – è la storia di Katia, impiegata di Alitalia Cai, oggi in cassa in deroga al 40% con uno stipendio di 500 euro al mese, quando arriva - oppure messi nei più bizzarri part time: come Francesco, che per 18 mesi ha lavorato in un’azienda nel settore delle rinnovabili con part time al 30% per 400 euro al mese. I secondi precipitati dai contratti a progetto al lavoro occasionale o a partita Iva, oppure a pigione. “Dopo anni di contratti di collaborazione”, racconta Chiara, traduttrice specializzata due bimbe di 3 e 5 anni, “oggi lavoro con diritto d’autore: guadagno poco, e i soldi arrivano sessanta giorni dopo”. “Lavoravo in una rivista specializzata di architettura”, racconta Luigi: “base di 300 euro più un tot per ogni abbonamento chiuso, un incubo”. Così, molti sono costretti a tornare al lavoro nero, magari a fare lavori di pulizia o babysitteraggio. “Sono laureata in scienze sociali”, spiega Marta, “ma oggi l’unico reddito certo è fare la family helper, per 500 euro al mese”. Anche Margherita, 44 anni, dipendente part-time di una farmacia, si è messa a fare le pulizie. “Non voglio essere messa in regola, altrimenti tolte tasse e contributi cosa resta per me e mia figlia?”
All’impoverimento materiale si sta aggiungendo, ancora più doloroso, quello affettivo. Così, mentre è sempre più difficile fare figli, quasi tutti raccontano di giovani amici e parenti volati via: “Non è giusto”, commenta Sabrina, “che la mia famiglia sia sventrata per colpa del lavoro che non c’è”. “Il Quinto Stato”, l’hanno battezzato Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, autori dell’omonimo libro e del blog “La furia dei cervelli”. “Avvocati, medici, insegnanti, lavoratori dell’intrattenimento e dell’arte: tutti si sono proletarizzati”, spiega Ciccarelli. “Tornare indietro non si può, ma servirebbero riforme radicali: salario minimo, reddito minimo, riforma delle tutele, riforma radicale dell’Inps, riforma del diritto del lavoro. Di certo non se ne esce con il Job Act. Semmai, ci vorrebbe la rivoluzione”.
(Ha collaborato Elena Ribera)