Paola Del Vecchio, Macro, Il Messaggero 31/3/2014, 31 marzo 2014
IL SACRO GRAAL È A LEON
LO STUDIO
Ha provocato crociate, motivato ricerche infruttuose durante secoli, ispirato narrazioni di ogni tipo, alimentato leggende e agitato ambizioni smisurate e feroci, perfino quelle di Hitler. Ora il grande enigma di dove si trovi il Santo Graal, il celebre e agognato calice dal quale bevve Cristo durante l’Ultima Cena, sembra risolto. Non sarebbe nascosto in nessun luogo recondito o misterioso, bensì è conservato alla luce del sole, custodito nella basilica di San Isidoro di Leon, in Castilla y Leon. E’ quanto sostengono «di poter dimostrare scientificamente» i medievalisti Margarita Torres Sevilla e José Miguel Ortega, dopo una ricerca di tre anni, svolta nel massimo segreto e finanziata dall’assessorato alla cultura di Castilla y Leon sui pezzi di origine musulmana conservati nel museo di San Isidoro. Un’investigazione compendiata nel volume Los reyes del Grial, presentato in un clima da “evento epocale” in un’affollata conferenza stampa a Leon.
A monte della ricerca, il ritrovamento di due pergamene originali del XIV secolo, che indicano, secondo i due storici, «che la coppa attribuita dalle comunità cristiane a Gesù Cristo è quella che fu trasferita a Leon nell’ XI secolo proveniente dall’Egitto, dopo essere passata per Denia, nella comunità Valenciana». In base alla nuova teoria, il così detto calice di Santa Urraca, custodito nel tempio palatino, è il Santo Graal e fu inviato nell’XI secolo al re di Leone Fernando il Grande o il Magno, noto come il monarca delle tre religioni, dopo essere stato saccheggiato dalla chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, dov’era rimasto fino al IV secolo. «Fernando I fu un re molto importante ed è normale che i regni arabi della penisola iberica gli inviassero regali: ma quello che richiama l’attenzione – spiega Margarita Torres - è la quantità di pezzi provenienti dall’Egitto, fra i quali un’arca di argento attribuita al visir Sadaqa ibn Yusufhizo, un emiro del potente califfato della dinastia Fatimi, nella quale si ritiene fu trasferito il Santo Graal». Questo fu il motivo per cui tre anni fa il gruppo di storici inviò la vestigia a un documentarista in Egitto, che ritrovò le due pergamene originali che spiegano il percorso seguito dalla sacra reliquia dal 400 in poi, quando fu portato via dal Santo Sepolcro di Gerusalemme dov’era custodito. «Le pergamene attestano che la coppa fu trasferita nel XI secolo in Spagna come regalo del califfo della dinastia Fatimi, che governava l’Egitto, all’emiro di Denia, che aveva risposto inviando ingenti quantità di viveri alla richiesta di aiuto proveniente dal califfato durante una terribile carestia», assicurano i due medievalisti.
LA STORIA
Il principe musulmano lo consegnò a Fernando I, re di Leone, nel 1054 per garantire la pace dei due regni, secondo quanto registrano i documenti ritrovati. Quello che non è chiaro è il perché Fernando I, al corrente dell’importanza del prezioso calice, non diede a conoscere al mondo che la basilica, poi diventata il suo tempio funebre, custodiva il sacro Graal, che secondo la tradizione medievale fu anche ritenuta la coppa nella quale Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo dopo la crocifissione. José Miguel Ortega suggerisce che si trattava di una reliquia troppo importante perché Fernando il Grande rischiasse di perderla, per cui diede la consegna del silenzio, che dovette mantenere anche il figlio, Alfonso VI, alla morte del padre. Ovviamente, i due medievalisti ricordano che la leggenda alimentata nei secoli intorno al Santo Graal mescola miti con le storie narrate dai trovatori in una tradizione orale, che rappresenta la parte “non dimostrabile”. Così come resta del tutto oscura la storia del calice fino al 400 d.C., non esistendo documentazione al riguardo. Ma, evidenziano anche che «nessun altro dei presunti Graal ha una base così solida, come le due pergamene egiziane, su cui poggiare».
C’è da dire che quello di Leon, noto finora come il Calice di Santa Urraca, ha un aspetto che non ha molto a che vedere con l’originale, ricoperto d’oro e tempestato di pietre preziose. Ma Torres ha chiarito che la Coppa di Cristo “è solo la parte superiore del calice di doña Urraca, formato da due metà di ceramica unite nel centro da una sorta di mela, fatta fabbricare dalla stessa Urraca come custodia del calice, che volle adornare con i propri gioielli”. E ricordano che, quando Saladino acconsentì al trasferimento della preziosa reliquia, volle conservarne una scheggia e “una delle pergamene ritrovate in Egitto indica che al calice di Cristo ne manca una, la stessa mancante dal calice di doña Urraca e che si crede che Saladino nascose fra i suoi tesori”.
Altri elementi all’interno della basilica di San Isidoro rafforzano la tesi avallata dai documenti. I dipinti del panteon, noti come la Cappella Sistina del Romanico, hanno al centro della scena dell’Ultima Cena elementi che «hanno sempre costituito un mistero per gli storici, dal comento che contengono una serie di elementi strani o inusuali», annotano i due medievalisti. Al centro della tavola, fra piatti e vassoi, non appare nessuna rappresentazione del calice davanti al Cristo, mentre ognuno degli apostoli sostiene una coppa fra le mani. In un angolo, San Marzio – inusuale in una rappresentazione del cenacolo - porta un calice per offrirlo a Gesù. Sebbene manchino ancora molti elementi per comporre il rompicapo finale, Torres e Ortega sono convinti che le tessere combacino. La datazione della coppa di Leon, che non si è potuta realizzare con la prova del Carbonio 14, non essendo un resto organico, ma è stata fatta mediante un complesso studio scientifico, ha dimostrato che appartiene al periodo compreso fra il I secolo a.C. e il I d.C. , che si crede coincida con il momento in cui Cristo utilizzò il calice. Naturalmente, restano i tanti enigmi senza risposta, ma i medievalisti di Leon sperano che questa prima scoperta possa essere il passo iniziale «di nuove ricerche che possano completare il puzzle».
Paola Del Vecchio