Raffaella Polato, Corriere della Sera 1/4/2014, 1 aprile 2014
DALla NOSTRa INVIATa TORINO — C’era il mondo prima della Grande recessione. E c’è il mondo «dopo»: niente è più uguale e, come dice Sergio Marchionne quasi a premessa dell’obiettivo-sintesi di «sei milioni di auto entro il 2018», il banale «copia e incolla del vecchio modo di agire non porterà più al successo»
DALla NOSTRa INVIATa TORINO — C’era il mondo prima della Grande recessione. E c’è il mondo «dopo»: niente è più uguale e, come dice Sergio Marchionne quasi a premessa dell’obiettivo-sintesi di «sei milioni di auto entro il 2018», il banale «copia e incolla del vecchio modo di agire non porterà più al successo». Vale per l’intero settore manifatturiero. Conta a maggior ragione per chi costruisce auto. Tenerlo a mente, aggiunge davanti ai soci, quando si affronta la «rivoluzione industriale» avviata in Fiat cinque anni fa con l’ingresso in Chrysler e vicina al completamento oggi, vigilia della fusione e del successivo sbarco a Wall Street. Tenerlo a mente perché, spiega, questo non è solo «il coronamento di un grande progetto» che approda alla finanza, ma parte dalla produzione e dall’integrazione di due storiche culture automobilistiche: vincenti, giura, grazie al fatto che «ognuna conserverà la propria identità e metterà a disposizione dell’altra i propri punti di forza». Avviene già. E non c’era altra via, né per Fiat né per Chrysler, che consentisse di sopravvivere alla crisi. Il confine con l’irrilevanza/ fallimento lo segnano i numeri del «mondo post» ricordati dall’amministratore delegato. Uno: «Siamo un settore ad alto impiego di capitale. Sviluppare una nuova vettura vuol dire investire quasi un miliardo di euro. Con una somma così alta, non ci è permesso fallire». Due: «La soglia che può garantire un adeguato ritorno economico è di un milione di auto derivate dalla stessa piattaforma». Ora. Buona parte del lavoro, su questo punto, Lingotto e Auburn Hills l’hanno già fatto. «Abbiamo completato la convergenza delle tre architetture principali, da cui nascerà la maggior parte dei nostri volumi futuri»: così dalla «piattaforma mini» nascono Panda e 500, la “small” è partita con la 500L e si allarga ora a Jeep Renegade e 500X di Melfi, la “compact” era stata inaugurata dalla Giulietta e ha poi fatto da base per Dodge Dart, nuovo Cherokee e nuova Chrysler 200, le cinesi Viaggio e Ottimo. Poi ci sarà il clou, ovvero il segmento premium, in via di sviluppo nel polo del lusso Grugliasco-Mirafiori. E sta lì la vera scommessa, quella che dirà se la strategia «non per deboli di cuore» eviterà definitivamente altri pericolosi collassi al gruppo. La prova del nove saranno le prossime Alfa. Ma hanno ragione, Marchionne e John Elkann, quando dicono che «l’assaggio» della Maserati promette bene: sì, «passare all’attacco contro i giganti del settore» si può. Certo, non basta fare belle auto: poi bisogna venderle. E — anche qui Maserati docet — guadagnarci. Per cui è lo stesso Marchionne a mostrare con un paio di slide come neppure i volumi, da soli, siano sufficienti. Dieci anni fa Fiat e Chrysler «sommavano» 4,4 milioni di auto. Esattamente i livelli di oggi. Ma allora perdevano un miliardo di euro la prima, 500 milioni la seconda. Oggi, unite, guadagnano 3,4 miliardi. Separate non ci sarebbero mai arrivate. Chrysler il 2014 non l’avrebbe proprio visto. E se ora la sfida è confermare il trend, non è detto sia meno complicato. R.Po.