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 2014  aprile 01 Martedì calendario

CAMPANA, DISCESA AGLI INFERI

«La poesia deve agire, non è che sia qui per se stes­sa, deve agire intima­mente, agire anche este­riormente. Quindi non può ripiegarsi o incan­tarsi su se stessa ammic­cando, non può farlo a lungo. Basta rassegnazione, o autocostrizione». Sta parlando Mario Luzi, la nostra ultima conversazione “profes­sionale” (uscita poi su “ Vita e Pensiero” nel 2004). Parliamo, come sempre, nella sua casa, in via Bellariva 20, a Firenze. È il 31 gennaio 2003. Tra poche ore sarò sul treno, e poi a ca­sa, a Milano, per festeggiare il Capodanno. A mezzanotte il più grande poeta italiano del No­vecento compirà novant’anni: non ho propo­sto a caso la data dell’incontro, spero che l’oc­casione favorisca il clima di un bilancio. Che giunge, alla fine dell’intervista.
Luzi ama il suo tempo, anche nelle sue con­traddizioni, ma critico verso una certa asfissia spirituale del Novecento. Anche nei maestri indiscutibili, Eliot, Pound, Yeats, Luzi avverte, nella grandezza che ammira, un nervo teso, u­na qualche sfiducia nella vita. Un sentimento del tempo segnato dalla crisi che quel tempo vive e da un suo insito e per Luzi non obbliga­torio pessimismo, quand’anche inconfessato o contrastato. «Montale, per esempio, è un grande poeta, però c’è in lui una specie di ri­morso inespresso, un rimorso fatto patire alle cose che incontra [...]. Un’ambizione umana veramente castigata, che subisce un castigo e che lo accetta, ma che non ha, non manifesta desideri di rinascita e non ha una speranza, perché non ha neanche avuto quest’attenzio­ne verso la vita. Campana, invece, propone e dona ben altro, eppure è anche un critico di­struttivo del suo presente [...]. Ma perché so­gna, desidera un’altra realtà. Il sogno dell’Ita­lia, della grande storia italiana, della grande a­nima della nazione, dell’arte, di Leonardo che deve tornare [...]. Ora non voglio creare con­trapposizioni, però ci sono queste misure, in­somma, differenti ma riconoscibili, nella sto­ria. Ecco, Campana è il primo poeta che ho co­nosciuto, l’ho letto da ragazzo e veramente mi ha dato questa impressione. Il primo che ho letto, il primo poeta moderno intendo, e no­nostante il retaggio della letteratura che gra­vava su di lui, esprimeva desiderio e speran­za».Mentre parliamo tra poche ore Luzi avrà novant’anni, è nato nel 1914. Trae un bilancio della poesia del secolo appena concluso e cul­mina sottolineando, chiaramente, come, tra tanti poeti grandi e fondamentali del secolo, quello che traccia la scia della rinascita spiri­tuale è Dino Campana. Il suo unico libro, leggendario, i Canti orfici, e­sce nel 1914, cento anni fa, lo stesso anno del­la nascita di Mario Luzi. Un li­bro straordinario per la potenza visionaria e la gittata insieme profonda e orizzontale: i Can­ti orfici scendono al fondo della terra, il pelle­grinaggio del poema in prosa La Verna (dove san Francesco ricevette le stimmate) è un viag­gio fisico e iniziatico di asprezza e fremito dan­teschi, La Notte, la lunga poesia in prosa che i­nizia proiettandoci in «Una vecchia città, ros­sa di mura e turrita», è una magica e animisti­ca discesa agli inferi, impresa eccezionale nel­la disincantata poesia moderna. Buia, piena di ombre, ma non fantasmatiche: come in un quadro di Caravaggio rivissuto in sogno, le om­bre sono corpose, i corpi rossastri, pieni e vi­venti. Campana definiva i suo sogni “plastici”: qui noi vediamo rilucere in un crepuscolo bronzeo la grande scultura italiana, e l’opera a cui il poema si ispira, La Notte di Michelan­gelo, si drammatizza modernamente, diviene sogno visibile. A questa pastosità latina si fon­de il mito germanico, ben più profondo di quel­lo espresso dai pur ammirati Nietzsche e Wa­gner: Campana rappresenta un sogno in cui il vigore barbarico dei Germani e la luminosità plastica dei Latini (e poi degli italiani, Leonar­do, Michelangelo) si fondono. E, analogamente. rivive e fa rivivere al lettore il mito di Cristoforo Colombo: salpare da Ge­nova, approdare a Montevideo, due città che diventano mito nell’attimo in cui Campana le tocca. Diventa mito ciò che Campana guarda, attraversa e nomina: la Genova elettrica, fu­sione di cielo rosso languente, rumori e ener­gie del porto, sirene, il canto notturno delle passeggiatrici; l’incanto dell’apparire, dal ma­re, di Montevideo, la luce astrale dei lampioni, pari a quelli di Van Gogh, il mistero dell’inve­triata e delle ceramiche dei caffè genovesi, le donne brune e ramate, maghe mediterranee.
Conosceva cinque lingue, aveva le Foglie d’erba di Whitman con sé nella sacca, quando salpò per l’Argentina, e sem­pre. Whitman, autore, come lui di un solo libro. Più fortunato di lui: poté vivere a lun­go, non impazzì, non finì in manicomio come lui, poté ampliare la sua magnifica opera. Ma Dino Campana, che chiude i Canti citando ma­gnifici versi di Whitman, che alludono al sacri­ficio di un ragazzo (orfico, dionisiaco), e citan­doli con un errore (prova che li conosceva a memoria, non copiava), Campana il poeta or­fico, cantore della città moderna e dei tramon­ti sanguigni, delle donne ammalianti e della prua salpante, che traversava il tempo e l’o­ceano con i suoi versi, fondando miti purpurei, d’oro e bronzo, svelando cieli giotteschi e for­me michelangiolesche, mentre i letterati alla moda Papini e Soffici sorbivano sorbetti ai fa­mosi caffè fiorentini, sapeva, e scrisse, che «l’ar­te è lunga, e la vita, breve».