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 2014  marzo 31 Lunedì calendario

NELL’IRAQ SENZA PACE È BOOM PETROLIFERO MA INVECE DEGLI USA SI ARRICCHISCE LA CINA


Gli elicotteri hanno ricominciato a solcare il cielo sopra Bagdad. I residenti ricordano quando lo facevano gli americani lanciando volantini per invitare le truppe ad arrendersi. Ma per fortuna stavolta non è un’operazione di guerra. È sempre un lancio di volantini, che però riproducono la scheda elettorale e esortano a votare il 30 aprile per le elezioni politiche. Le prime dopo la partenza delle truppe Usa di fine 2011 ma soprattutto le prime ad arrivare nel pieno di un boom petrolifero inaspettato che ha riportato l’Iraq ai livelli degli anni ’80, prima che sul Paese si scatenasse l’Armageddon cominciato con l’invasione del Kuwait del 1° agosto 1990. Come allora, l’Iraq è arrivato a produrre oltre 3 milioni e mezzo di barili al giorno, con un incremento record di oltre un milione di barili in sei mesi, e a riconquistare non solo il secondo posto nell’Opec dopo l’Arabia Saudita ma anche una rilevanza all’interno dell’organizzazione, quindi dello scenario globale, di primissimo piano. All’Iraq il segretario generale dell’Opec, Abdalla El-Bardi, ha perfino chiesto ufficialmente (in un discorso alla Chatham House di Londra il 27 gennaio) di compensare il gap produttivo causato dalla perdurante crisi in Libia, dai cronici problemi tecnici della Nigeria, dai ritardi nel rientro delle grandi correnti commerciali dell’Iran (dopo la fine delle sanzioni ci sarà da scontare la carenza di investimenti e di capitale). Il tutto per stabilizzare i prezzi internazionali e scoraggiare la speculazione, obiettivi dell’Opec. E visto che l’organizzazione stessa continua a dettare legge sullo scenario petrolifero malgrado non produca ormai più che il 42% del greggio mondiale (contro il 75% degli anni ’70), il premier Nuri al-Maliki si trova in una posizione di forza insperata che cercherà di giocarsi alle elezioni.
La posta in gioco non è solo una maggioranza elettorale. Il governo di Bagdad si trova a ricoprire un ruolo del tutto inaspettato nello scacchiere planetario, sicuramente molto diverso da quello che avevano prefigurato gli Stati Uniti nel lanciare l’offensiva contro Saddam Hussein undici anni fa, anche da tutt’altro punto di vista: l’Iraq è diventato nel 2013 il primo fornitore di petrolio della Cina. È Pechino ad assorbire gran parte dell’aumento della capacità produttiva in virtù della politica aggressiva, intraprendente e ben sovvenzionata della holding pubblica Cnpc (China National Petroleum Corporation) e del suo braccio operativo Petrochina. Non sono passati che quattro anni da quando il gruppo cinese partecipò alla sua prima gara e oggi la Cnpc ha posizioni di forza nello sfruttamento di una ventina di giacimenti, fra cui il 38% degli ambitissimi pozzi di Rumailia (una quota analoga è della Bp, il resto del governo iracheno) che con 15-20 miliardi di barili giacenti sotto la sabbia sono i maggiori del mondo e producono 1,4 milioni di barili al giorno.
Non solo: i cinesi stanno negoziando con il Kuwait, che per ora a differenza dell’Iraq mantiene il 100% dei diritti sulle proprie riserve, uno sfruttamento congiunto della parte kuwaitiana della stessa Rumailia, che vale altrettanto petrolio “recuperabile”, come si dice in gergo, di quello di spettanza irachena. La Cnpc non si ferma: con un investimento di 3 miliardi di dollari si è aggiudicata più di recente i diritti di sviluppo per 23 anni del giacimento di Al-Ahdab, almeno un miliardo di barili nel sottosuolo e il potenziale di arrivare rapidamente a un milione di barili al giorno.
Grazie a questi accordi, Bagdad conta di arrivare a produrre 4 milioni di barili al giorno già quest’anno e 4,7 nel 2015, finanziando così gli ingenti investimenti pubblici che ha annunciato: 174,8 trilioni di dinari (pari a 150 miliardi di dollari) nel solo 2014, rispetto ai 138,4 trilioni di dinari dell’anno scorso. Un aumento del 26% nel budget che fa seguito a quello del 18% dell’anno scorso, motivato con le necessità ingenti della ricostruzione. Che è in pieno svolgimento a partire da Bagdad dove sorgono a ritmo serrato grandi centri commerciali, grattacieli per uffici, sfavillanti hotel a cinque stelle. «L’Iraq forse non potrà diventare sul medio termine una potenza regionale pari all’Iran, che ha il doppio della popolazione e maggior tradizione in tecnologia e formazione, ma di sicuro può avere un grosso ruolo geopolitico in quanto forte produttore ed esportatore di greggio », conferma Anil Gupta, docente di “Strategia e Globalizzazione” all’Università del Maryland, che ha tenuto la settimana scorsa un webinar della serie Ambrosetti live.
Intanto, per dare un segnale della ritrovata forza la Banca centrale di Bagdad ha acquistato ben 36 tonnellate di oro nel solo mese di marzo, più della domanda di Italia e Francia messe insieme nel 2013, raddoppiando le riserve per stabilizzare il dinaro. Non a caso lievitano le previsioni di crescita del Pil ( vedere grafico) condivise anche, e questo è l’importante, dall’Fmi e dagli altri osservatori internazionali.
Una partita dove l’Italia sta giocando un ruolo con sorprendente vigore, e potrebbe ancora migliorare: nel 2013 l’export dal nostro Paese è più che raddoppiato rispetto all’anno prima, da 633 milioni a 1,3 miliardi (erano 489 milioni nel 2011). Il saldo negativo si è ridotto del 41%, con importazioni energetiche per 2,9 miliardi. «Il 50% dell’export è costituito dalla meccanica strumentale, il 20% dalla metallurgia e il 13% da apparecchi elettrici, voci tipiche di un’economia che deve ricostituirsi una base industriale », spiega Federica Pocek, analista della Sace per il Medio Oriente. «Le imprese italiane sono presenti in comparti strategici, singolarmente o in consorzi internazionali: dal settore energetico con la Techint alle risorse idriche (Trevi), dai trasporti con Technital, Alstom Italia e Italferr, fino alla difesa con Finmeccanica e Fincantieri». Italia significa ovviamente anche Eni, che pure ha risentito di qualche incertezza iniziale: sembrava in pole position per entrare subito in partita, appena dopo la caduta del regime, invece ha aspettato fino al 2009. Oggi comunque è capogruppo di un consorzio con Occidental Petroleum Corporation, Korea Gas Corporation e Missan Oil Company per lo sviluppo dei giacimenti di Zubair, vicino Bassora, fra i più grandi dell’Iraq, estesi su una superficie di 1.074 chilometri quadrati, 352 dei quali nella quota Eni che è del 32,8%. Quello che più conta è il clima di collaborazione con le autorità locali che il gruppo italiano ha saputo instaurare. Il 15 luglio 2013 l’Eni ha firmato a Bagdad con il ministero del Petrolio un emendamento al contratto di servizio che stabilisce un nuovo target di produzione di 850.000 barili al giorno, l’estensione della durata per altri cinque anni fino al 2035 e una serie di progetti socio-economici nell’area con iniziative di formazione nel settore petrolifero (nelle quali l’Eni ha investito in un anno 1,4 milioni) nonché progetti nell’agricoltura.
Un clima che non riescono ad instaurare le compagnie petrolifere americane, che erano state come dire all’origine della storia. In parte per comprensibili motivi psicologici, e non basta certo che il premier al-Maliki sia in così buoni rapporti con l’amministrazione Usa da poter andare, qualche giorno fa, alla Casa Bianca a chiedere ingenti forniture di mezzi blindati e aerei (ancora gli elicotteri) per fronteggiare gli ennesimi rigurgiti di guerra civile ( vedere box). Ma in buona parte perché gli americani si muovono con la delicatezza dell’elefante in cristalleria. «Grandi gruppi come Chevron e ConocoPhillips non riescono ancora a concludere accordi operativi», spiega Leo Drollas, capo analista del Center for Global Energy Studies fondato a Londra dallo sceicco Yamani, che di petrolio se ne intende per usare un eufemismo. «Ma il vero pasticcio l’ha fatto la ExxonMobil, prima compagnia petrolifera del pianeta, che ha causato un incidente diplomatico gigantesco quando ha cominciato a vendere direttamente all’estero, a partire dalla confinante Turchia, il greggio estratto dai pozzi di West Qurna nel territorio curdo». Apriti cielo. Il Kurdistan iracheno gode di ampia autonomia, ma non così ampia da bypassare Bagdad quando si tratta di petrolio. Per di più i rapporti strettissimi fra l’amministrazione semi-autonoma di Erbil, capoluogo curdo, e Ankara, sono da sempre al centro di un delicato bilanciamento. È andata a finire che al-Maliki ha accusato vibratamente il Kurdistan di violare l’integrità territoriale dell’Iraq, le forniture si sono dovute interrompere con la chiusura temporanea dell’oleodotto che collega la regione alla Turchia, dell’incidente si sono dovuti occupare i tanti organismi internazionali che vigilano sulla polveriera mediorentale. Per pacificare gli animi, la ExxonMobil ha dovuto vendere molte quote del consorzio “West Qurna I”, pur mantenendo la posizione di lead contracotr con il 25%. E a chi ha venduto? Risposta intuibile: a parte il 10% che è andato all’indonesiana Pertamina, il 25%, una quota identica a quella rimasta in mano loro, gli americani l’hanno ceduta alla Petrochina, gruppo Cnpc. La raffineria Kar di Erbil, il capoluogo della regione autonoma del Kurdistan, una delle aree più ricche di petrolio dell’intero Iraq. La raffineria, così come molti dei pozzi circostanti, è gestita, con personale locale, dalla cinese Petrochina del gruppo Cnpc