Stefano Carli, Affari&Finanza 31/3/2014, 31 marzo 2014
MANAGER PUBBLICI IN AUSTERITY MA TRA I PRIVATI STIPENDI RECORD
Scatta dal primo aprile il tetto agli stipendi dei dirigenti e manager pubblici: 311 mila euro l’anno. Non è il caso di lasciarsi fuorviare dai 47 milioni incassati da Sergio Marchionne nel 2012 o dai 22,6 del fondatore e amministratore delegato di Yoox Federico Marchetti, e neanche dai 5,5 di Montezemolo presidente della Ferrari o dai 4,4 di Gianmario Tondato amministratore delegato di Autogrill. Quello dei vertici delle società quotate è un club ristretto nel quale 149 soci guadagnano oltre un milione l’anno (55 oltre due milioni). Fuori da quel club gli zeri diminuiscono: lo stipendio medio del direttore generale di una grande impresa sfiora 150 mila euro l’anno, la metà del tetto fissato per i dirigenti pubblici.
Le polemiche dei giorni scorsi sugli stipendi dei manager pubblici e privati sono un tema spinoso. Tanto più quando le famiglie stringono la cinghia e i consumi nazionali vanno giù. Diciamo allora che il tema è reale ma non va affrontato in termini moralistici. Perché alla fine i manager milionari sono pochi. Sempre secondo i dati 2012 (per il 2013 bisogna attendere che le società quotate facciano l’assemblea e depositino i bilanci alla Consob), sopra i 10 milioni ci sono 8 supermanager, 21 sopra i 4 milioni, 55 oltre i 2 e sono 149 in tutto quelli che superano il milione. E stiamo parlando solo delle posizioni relative alle poco più di 300 società italiane quotate a Piazza Affari: 150 persone su un totale difficilmente calcolabile.
«Nelle nostre rilevazioni - spiega Guido Carella, presidente di Manager Italia - noi analizziamo 116mila posizioni tra dirigenti e quadri di 32mila piccole e medie imprese non quotate. Sul totale delle 230mila aziende italiane che hanno più di 100 dipendenti. In questo universo di riferimento, nel 2013 i dirigenti hanno avuto una retribuzione media di 110 mila euro lordi, ossia poco più di 50 mila euro netti; i quadri la metà, 54 mila, e gli impiegati sono a 28 mila. La parte variabile dello stipendio dei manager è in media sul 10%. E da notare è la media dei rapporti reciproci: un quadro prende circa il doppio di un impiegato e la metà di un manager». Quando si parla dei top le cose cambiano. Ma bisogna sempre considerare che si parla di superstar dei listini. Ed è proprio la quotazione a fare la differenza. O ad essere il problema. Le azioni di un manager influenzano le quotazioni, fanno muovere flussi di vendite e acquisti. Non è più solo il risultato di gestione in ballo ma un moltiplicatore che, come nei casi della finanza creativa, può innescare reazioni a catena. L’America fa scuola in tutti i sensi. «Negli Usa ci sono stati i super bonus di Wall Street ma anche casi come quello della Southwest Airline, una linea aerea low cost che fa profitti da 30 anni e il cui Ceo prende tuttora poco più dei piloti », spiega Arnaldo Camuffo, docente di Organizzazione aziendale alla Bocconi. «Dall’altra parte abbiamo i campioni di Fortune 500: Ceo che prendono 30-50 volte più dei loro primi riporti, ossia dei primi manager (e 150-200 volte in più del lavoratore medio). E c’è da chiedersi: crea valore lui da solo o è il team a crearlo?» Il mercato Usa non è però trasferibile in Europa e tanto meno in Italia così com’è. «Il Ceo di una public company quotata in Usa ha in effetti un potere enorme e un’enorme responsabilità. Risponde a una platea di azionisti con quote minime rappresentati nei cda», spiega Enor Signorotto, direttore Executives Reward di Hay Group Italia, uno dei big mondiali dei cacciatori di teste o, come preferiscono loro, “cercatori di talenti”. «Gli ad italiani hanno invece un controllo tradizionalmente più stretto da parte di cda in cui sono rappresentati i grandi azionisti di riferimento. Sono, per così dire, più guardati a vista».
Ma come si calcola lo stipendio di un manager? Dipende da molte cose: dalla grandezza della società, dagli obiettivi, se deve magari ristrutturare o espandere piuttosto che gestire l’esistente. «Dipende molto da quanto l’azienda e il settore sono esposti alla concorrenza», aggiunge Camuffo. E da questo punto di vista le utility non sono certo la Fiat. Distributori di energia, gestori di autostrade, operatori ferroviari non hanno grandi competitor. Ma ogni parametro va misurato: non è un caso che nella top 20 c’è il Ceo di Autogrill ma non quello della sua controllante Atlantia. E ci sarebbe da riflettere sulla presenza invece di Scaroni (Eni), Conti (Enel) e Cattaneo, Terna. Anche se verso il fondo della classifica.
La grande crisi degli ultimi 6 anni costituisce però uno spartiacque. La finanza, la maggior responsabile, ha iniziato a darsi delle regole e il resto dell’economia si è adeguato con anche minor fatica. In Italia una legge del 2012 impone alle quotate di dichiarare in bilancio i compensi dei manager (di qui il fioccare di numeri e statistiche prima impossibili) e impone ai cda di portare in assemblea le proposte di retribuzione (anche se l’assemblea esprime solo pareri e non veti). «Ma soprattutto - dice ancora Camuffo si stanno introducendo meccanismi di verifica e controllo dei risultati ». Insomma meno stock option e più stock grant: le azioni date in retribuzione non possono essere vendute subito ma sono “lockate” per 10 anni per evitare che i manager gonfino il titolo subito prima di incassarle per vendere ai massimi. Poi il claw back: la possibilità per l’azienda si chiedere indietro al manager i bonus in caso di conseguenze negative delle loro azioni anche a distanza di tempo. «E in generale - conclude Camuffo - un nuovo modo di calcolare la performance: non più solo margini netti e quotazione ma anche l’aver saputo creare valore nel lungo periodo per l’azienda e tutti i suoi stakeholder, non i soli azionisti. E si crea valore in molti modi. Consolidando l’attività economica, il valore dell’azienda in un territorio e in una collettività. Facendo crescere le persone all’interno. E anche valutando il bilancio etico e di sostenibilità delle imprese». Una via “slow” al profitto? Non proprio. Non ancora.