Gianni Mura, la Repubblica 31/3/2014, 31 marzo 2014
BRUNO NICOLÈ – [IL BEL CENTRATTACCO CHE PENSAVA TROPPO “IL CALCIO? DIMENTICATO”]
VICENZA
PER Bruno Nicolè, padovano, classe 1940, si può partire da un titolo: “Habemus Piolam: Ni-co-lè!”. Lo dettò Gianni Brera al Guerino dopo Colombes, nel novembre del ‘58. Allo stadio di Colombes l’Italia affrontava la Francia in amichevole. Non una Francia qualsiasi, quella terza ai mondiali in Svezia, pochi mesi prima, eliminata in semifinale dal Brasile, ma ancora capace di un 6-3 ai campioni uscenti, i tedeschi, per il terzo posto. Miglior goleador Just Fontaine, 13 reti. Fu lui a pareggiare a 6’ dalla fine, perché dopo l’1-0 iniziale di Vincent segnò due gol in pochi minuti (57’ e 65’) un esordiente in azzurro, bel fisico, capelli ondulati. Nicolè. «Il primo su angolo battuto da Bean, testa di Galli, il portiere Colonna respinge corto e io la butto entro, sempre di testa. Il secondo: Segato mi passa la palla, prolungo sulla sinistra per Bean che me la ridà sul lato corto dell’area. Appena dentro, destro incrociato, molto forte. Sul 2-1 ho anche preso un palo, forse sarebbe stato il gol più bello. A fine partita un signore mi mette in mano un bigliettino. Grazie a nome di tutti i minatori veneti che lavorano in Francia, c’era scritto».
Il nuovo Piola non dura tanto. A 27 anni ha già chiuso col calcio. Gli restano due record: più giovane marcatore in azzurro (18 anni e 258 giorni) e più giovane capitano della Nazionale (21 anni e 61 giorni). «Fu a Bologna con l’Irlanda del Nord, che ci aveva eliminato nelle qualificazioni per la Svezia. Esordio di Sivori. Giocai con uno stiramentino, come facevo a dire di no?, e poi pagai questa leggerezza. Avevo un fisico imponente ma delicato, e perdipiù se stavo fermo due giorni per infortunio ingrassavo di chili. Un difensore si può dribblare, ma la bilancia no».
Storia singolare, quella di Nicolè. Scandita da quattro periodi: l’attesa, l’affer-mazione (fin troppo rapida), il declino (fin troppo rapido, a sua volta) e la nuova vita da insegnante di Educazione fisica per una trentina d’anni, in centri del basso Friuli: Prata, Brugnera, Pocenigo, San Quirino. Vive ad Azzano Decimo. È andato in pensione nel 2001. Resta da spiegare perché questo pezzo sia datato Vicenza. Perché al telefono Nicolè m’aveva detto: «C’è nebbia in questi giorni, posso accorciarle il viaggio e ci vediamo a Vicenza, avevo già deciso di andare a trovare mio figlio». Fabio, il figlio, ha seguito le orme paterne (Isef) e lavora in una società calcistica, la Leodari, che cresce 270 ragazzi. «Gli unici risultati su cui m’informo sono quelli delle squadre di Fabio. Con tutto il resto del calcio ho chiuso. Non m’interessa, non lo dico per snobbarlo. Non guardo le partite in tv. L’accendo per le Olimpiadi e le Paralimpiadi, per i campionati di atletica, di nuoto, di volley, di basket. Vuole una sintesi? Ho amato lo sport e ho scelto il calcio. Poi ho amato il calcio e scelto lo sport. Tanti anni di insegnamento mi hanno arricchito molto più degli anni dedicati al pallone. Forse la scuola, la cultura erano nel mio destino. La mia prima moglie era insegnante di Lettere, la seconda di Matematica. Delle due figlie, Valentina è psicologa e Silvia ricercatrice in biotecnologie agrovegetali all’università di Padova. Spero non sia costretta ad andare all’estero, ma so che ci sta facendo un pensierino ».
L’attesa. «A 14 anni mi ha preso il Padova, mi allenavo sul campo del velodromo Monti. Prima giocavo all’oratorio della Sacra Famiglia. Mi piaceva molto leggere e fare sport. Carlo, mio padre, aveva un’edicola in Ponte Molino, non lontano dalla stazione ferroviaria. Teresa, mia madre, mandava avanti una latteria sotto casa, in via Castelfidardo, vicino al campo d’aviazione. Due obiettivi sensibili, si direbbe oggi. Ricordo che un giorno scoppiarono tutte le finestre di casa, mentre stavamo mangiando. I miei rimasero in città, i figli li mandarono in campagna dai nonni, a Bastia di Rovolon. Tenevo al Toro e a Bartali, ero affascinato dalla voci alla radio: Nicolò Carosio, Mario Ferretti. Il Toro allora era come la Juve oggi, la squadra più forte, normale che un bambino scegliesse il granata. Dopo Superga, diventai juventino. Facevo corse in bici con gli amici, ero un buon saltatore in alto, se ero libero andavo anche a vedere il Petrarca giocare a rugby. Tenevo anche al Padova, ovviamente, già quello di Luisetto, Curti, Prunecchi. Andavo all’Appiani anche due ore prima della partita, già il profumo dell’erba mi emozionava, e la musica dall’altoparlante. Mio padre era un uomo di città, molto mite. Socialista, corrente Saragat perché Nenni gli sembrava già un po’ troppo rosso. Mai messo piede in chiesa, lui. Ma ha lasciato che facessi il chierichetto senza protestare. Mia madre era una donna di campagna, sempre in movimento. Sapeva mungere, fare il formaggio, con una gallina dava da mangiare a un sacco di persone. Al Padova mi porta il mio primo maestro, Mariano Tansini. Intanto, studio. Non si può mai sapere».
L’affermazione. «Nereo Rocco allenava la prima squadra, quella dei famosi manzi che conquisterà un terzo posto. Capitava che verso sera passasse da via Castelfidardo. La prima volta che me lo son visto davanti sulla porta della latteria, accompagnato dall’oste Cavalca, manca poco che svengo. Cosa beve, signor Rocco? Un caffè, grazie. Niente vino, credo che una presenza femminile lo intimidisse. Venire in visita credo fosse un modo per farmi sentire il suo affetto. Umanamente, nel calcio come Rocco non ho trovato nessuno, ancora oggi mi sento coi suoi figli. Avevo 16 anni quando mi dice di aggregarmi alla prima squadra. Solita domenica: messa al Santo, pranzo da Cavalca, poi all’Appiani a piedi. Penso che mi abbia chiamato per fare esperienza più da vicino, invece appena siamo negli spogliatoi mi dice: Cambiati che giochi. Forse faccio una faccia strana, perché aggiunge: se te lo dicevo ieri non dormivi e adesso saresti uno straccio. In campo, fa’ quello che ti senti di fare. Battiamo l’Inter 3-2, gioco piuttosto bene. Gira voce che la Juve sia interessata a me, mi ha segnalato Stivanello. Occhio, se vi gioca contro, ha detto a Nay: ha scatto e tiro. E arriva anche il giorno che a Padova c’è la Juve. L’avevo vista da tifoso vincere 2-0, gol di Mari e Martino, un argentino incredibile, uno dei miei idoli insieme a Boniperti. Stavolta vince il Padova, segno un gol anch’io su lancio di Rosa, dribblando Nay e Garzena e battendo Romano. Dal campo vedo Boniperti e dico che, con Rivera, è il più forte calciatore italiano che abbia mai visto. Sapeva fare tutto, dal centravanti al mediano».
La Juve, altro che interessata: 70 milioni più il prestito di Hamrin. Nicolè va a Torino, il primo anno da solo, poi lo raggiungeranno i genitori che hanno ceduto le rispettive attività.
«È una Juve che vuole rilanciarsi alla grande, con Charles e Sivori. Il presidente, Umberto Agnelli, è giovanissimo. Gioco le prime partite con l’8, le altre col 7 che non m’è piaciuto ma non è questione di numeri. È che non sono mai stato un’ala ma una punta centrale. Devo adattarmi e stare zitto, com’è giusto, perché al centro ci sono due mostri sacri come Sivori e Charles. Boniperti a centrocampo, Stacchini o Stivanello con l’11. Con Boniperti capita di fare le ferie insieme, a Lignano, dove ci s’incontra con Bearzot. Quando torno all’Appiani da avversario, Scagnellato mi fa un’entrata terrificante. Ma Aurelio, sei diventato matto? gli dico in dialetto. E lui, sempre in dialetto: la storia della riga la sai, eri dei nostri. Hai passato la riga. Se al posto tuo c’era mia madre con un’altra maglia buttavo giù anche lei. Va be’, il primo anno 21 partite zero gol, il secondo mi sblocco con il Napoli e tengo una media decente. Bilancio di quattro campionati: tre scudetti e due Coppe Italia, più una Coppa delle Alpi. Più la Nazionale e la Coppa dei Campioni. Indimenticabile il ritorno al Bernabeu. Loro avevano vinto 1-0 a Torino, noi vinciamo 1-0 con un gol di Sivori. Di Stefano, Puskas, Gento incutevano rispetto solo a vederli. Mi spiace di aver sbagliato un paio di gol, ne avessi segnato almeno uno non avremmo perso nello spareggio a Parigi perché non ci sarebbe stato spareggio. Sola consolazione, essere stati i primi italiani a vincere al Bernabeu».
Il declino. «Da calciatore pensavo molto, forse troppo. Pensavo che eravamo trattati benissimo ma bastava un calcio a un ginocchio per essere fuori da tutto, numeri e basta. Pensavo a Boniperti, diceva che conta solo vincere. Ma non si può vincere sempre. La Juve era cambiata, Agnelli si era dimesso, era arrivato Catella. Mi danno alla Roma in cambio di Menichelli. Una stagione in prestito a Mantova, forse sperando che mi ritrovi in provincia, poi torno a Roma. Presidente Sacerdoti, bravissima persona, e situazione economica sottozero, ma queste cose della colletta di Lorenzo gliele ha già dette Losi. Vinciamo una Coppa Italia, torno in Nazionale, insomma me la cavo ma mi ritrovo alla Samp e dopo pochi mesi in B, all’Alessandria. Avrei dovuto smettere prima, non ho smesso solo per il servizio militare da assolvere come atleta: prima il Car a Orvieto, poi a Bologna. Mi alleno poco ma soprattutto mi vergogno: l’Alessandria mi dà quello che prendevo alla Juve più quattro milioni di bonus anticipato. Qualcosa mi si è rotto dentro, lo intuisco, poi lo capisco bene. È il momento di darci un taglio. Ho ritrovato l’entusiasmo da ex, giocando una stagione coi dilettanti del Prata. Campionato vinto, nessuna sconfitta. Il mio bilancio col calcio è in parità, ho avuto sfortune e fortune. Altri solo fortune, altri solo sfortune. Non posso lamentarmi. Forse tutto è andato troppo in fretta, forse non ero pronto per una carriera da professionista».
La seconda vita. «Ho insegnato alle elementari, mi chiamavano le maestre per i Giochi della Gioventù, ho insegnato ai disabili, alle medie e negli istituti superiori. Ai ragazzi facevo scrivere temi su come vedevano o volevano lo sport, per conoscerli meglio. Magari uno non sa parlare ma sa scrivere, oppure uno è negato per il calcio ma si diverte col basket, importante è tenere accesa la passione nei ragazzi, non lasciarne uno indietro. Ai docenti di lettere il fatto che il professore di ginnastica desse temi scritti faceva arricciare il naso. Fortuna che il preside mi ha difeso: non è un’invasione di campo, è un appoggio al vostro lavoro. Ho portato a scuola le bocce, la dama, gli scacchi, il tennis da tavolo. Credo nelle scuole dello sport, all’estero ce ne sono da tempo e qui siamo in ritardo, ma a Maniago c’è un liceo scientifico con indirizzo sportivo che mi dà speranza. Conte, Mazzarri, Ventura, lo stesso Mourinho escono dall’Isef. Io a fare l’allenatore non ci ho mai provato, non ne sarei stato capace. Mi piace leggere e scrivere. Guardi, questa è la tessera da giornalista pubblicista. Scrivo i pezzi a mano, sui fogli protocollo. Oggi per denigrare i giornalisti li chiamano giornalai, ma per me giornalaio è una parola che profuma, come fornaio. Mio padre era giornalaio, non edicolante. D’inverno si portava lo scaldino. Apriva alle 5, un’ora di pausa pranzo e tornava in bici, alle 9. Alle 6 sono già sveglio e pronto a uscire per comprare i soliti giornali: Repubblica, che adesso mi dà anche la Nuova, Gazzettino e Messaggero Veneto, perché sto in una zona di frontiera. Posso andare alla stazione di Pordenone o a Portogruaro. Se trovo ancora chiuso, penso a mio padre e m’incazzo. Lo so che si vende sempre meno, ma non riesco a immaginare un mondo senza carta, senza il profumo della carta, senza la bellezza delle pagine sfogliate».
Neanch’io. Per gli amanti del genere segnalo che «le foto di Levratto e Nicolè» è l’ultima riga di una canzone del Quartetto Cetra intitolata «Che centrattacco», composta nel 1959. Uatapùm uatapùm, cosi faceva l’inizio.