Gabriele Romagnoli, la Repubblica 31/3/2014, 31 marzo 2014
BRAND GENERATION
UNO scaffale è uno scaffale. O, invece è qualcosa di diverso e di più? Un segnatempo? Una madeleine generazionale? E come quello altri prodotti che hanno finito per sostituire le idee, le colonne sonore, i movimenti letterari nel dare il titolo ai capitoli della nostra vita?
La domanda sorge, anziché in un convegno, nel magazzino dell’Ikea. Cartelli annunciano la prossima uscita di produzione di Expedit, il più diffuso scaffale dell’arredificio svedese. Se ne andrà il 20 aprile, sostituito da un fratello quasi gemello di nome Kallax, smussato e più sottile di un centimetro. La notizia, uscita su giornali e siti, ha creato una reazione imprevedibile: dalla nostalgia alla protesta il passo è stato breve, un clic. Esistono forum e pagine Facebook creati in tutto il mondo alla voce: “Salvate Expedit”, come se stesse per estinguersi un patrimonio dell’umanità. Analizzare questo evento apparentemente secondario porta a una serie di rivelazioni anch’esse inaspettate.
Ikea, anzitutto, è uno dei marchi assolutamente globali. Le sue produzioni hanno nomi spesso difficili, ma sono così onnipresenti che il marchio si è volgarizzato diventando l’oggetto stesso. Un Expedit è uno scaffale, in Iran come in Olanda. Perché sostituirlo allora? Primo: perché ogni prodotto ha un ciclodi vita, poi deve morire con tutti i suoi ricambi e le sue famiglie di giustapponibili fratelli, per indurre a un rinnovamento completo del parco oggetti da parte del cliente. Secondo: perché il successore si assottiglia di un centimetro per lato e sembra un’inezia ma per chi usa l’1% del legno terrestre quella limatura è un risparmio ingente. E allora: che problema c’è? Perché tanto affetto per un parallelepipedo senza particolari fronzoli? Per scoprirlo bisogna leggere le “note biografiche” dell’oggetto. Quando fu lanciato si mise in risalto che il formato era perfetto per contenere gli album a 33 giri, il riquadro era disegnato a misura di vinile. Expedit è stato lo scaffale dove, a migliaia, hanno infilato compiacendosi dell’inserimento millimetrico Blood on the tracks di Bob Dylan o l’esordio di Bruce Springsteen. Dopo il contenuto, scompare il contenitore, svapora una stagione della vita: puoi soltanto ricordarla, ma non riaverla. È sempre stato così, ma sono queste cose a sottolinearlo con l’implacabile evidenziatore del mercato.
La morte di un prodotto dovrebbe essere un evento indolore, in teoria. La realtà è diversa. Diciassette anni fa, prima che la fabbrica di gelati “Ben & Jerry’s” fosse ceduta a una multinazionale andai a visitarla, tra i declivi del Vermont. E scoprii il cimitero dei gusti scomparsi. Su un prato c’erano le “tombe” e ho visto un uomo commuoversi davanti alla foto di un cono alla “nocciola delle foreste” che gli ricordava sa lui cosa: una cotta infantile per la zia, lo stadio del baseball, il serial killer di Brooklyn.
Tutti noi abbiamo avuto la vita scandita da prodotti che l’accompagnano per un periodo forzatamente limitato. L’esempio principale sono le automobili. Io sono cresciuto dentro una Fiat 128, finché su quella mio padre mi ha insegnato a guidare. La mia prima auto è stata diversa. Inevitabilmente: ero entrato in una diversa fase della vita. L’altro giorno ho visto una 128 nella tana di un carrozziere a Roma e mi sono ritrovato bambino per gli Stradelli Guelfi, cercando l’impossibile strada che porta al mare senza code.
È un effetto nostalgia sul quale le aziende lucrano riproponendo dopo qualche lustro versioni modificate e teoricamente migliorate del prodotto obsoleto. Il termine “gusto scomparso” è perfetto perché perfino un’auto del passato ha un sapore, un odore che rinasce appena la rivediamo: è la sensazione di un tempo. Adesso che sta per andare via la Punto si chiude la porta di un altro (milione di) garage. Poi la richiameranno in vita. Navigando su Internet si trovano perfino petizioni al Mulino Bianco (tra un po’ direttamente a Banderas) per potere sgranocchiare di nuovo il Soldino.
È una nostalgia che nasce anche dall’assenza di segnatempo alternativi. Le aggregazioni politiche si sono dissolte. Dopo il Sessantotto e il Settantasette non ci sono state altre date con la stessa potenza evocativa. La musica? Per che cosa ci si raduna? Quanto può durare, o forse sarebbe giusto dire è durato, Justin Bieber? Più che una generazione, un pomeriggio. Ehi, ripassano i Rolling Stones, quelli che hanno esagerato coprendo un albero genealogico. C’è stata, per dire, la beat ge-neration. Oggi si scrive tutti in ordine sparso, riecheggiando chi questo chi quello, ma soprattutto dedicandosi al memoir: c’ero una volta, l’ego non va mai fuori produzione.
Si succedono così brand ge-neration, stacchi segnati dal succedersi di marchi globali piuttosto che da ondate di idee, note, parole. Mancano fortunatamente le guerre a fare da spartiacque, ma mancano anche svolte di pensiero, arte, politica. Quando si cerca il nome dell’uomo che più ha influenzato le esistenze quotidiane sul pianeta dell’ultimo ventennio il più citato è: Steve Jobs. Uno che ha incartato con l’ideologia e qualche frase ripetuta dai pappagalli dei prodotti commerciali. L’iPhone è stato il punto e a capo.
Il neo-conservatorismo, per dire, una nota a piè di pagina, di quelle in cui si mette la citazione di un sostenitore, quella di un antagonista e poi si torna alle cose serie. Cioè: a pensare brandche etichettino generazioni. Il tempo sta nello scaffale.