Marco Ansaldo, la Repubblica 31/3/2014, 31 marzo 2014
LA MACCHINA DA GUERRA DEL SULTANO TRA AFFARI E CENSURA
IL REPORTAGE
ISTANBUL
«SEMPRE con te, Presidente Erdogan » . L’immagine della vittoria corre sulle bandiere con la lampadina accesa, simbolo del partito islamico turco, portate dalle auto che sfrecciano su Barbaros Boulevard, a Besiktas, roccaforte dei laici. A Istanbul è lo schiaffo dei conservatori verso l’opposizione, nettamente sconfitta dal voto, di fronte a un partito di ispirazione religiosa — ma ben calato dentro gli affari — capace di sfiorare nelle elezioni amministrative il 50 per cento delle urne.
Besiktas è l’immagine del crollo degli uni, e dell’ascesa degli altri. Saffet, manager che lavora qui e però vive sull’altra riva dello Stretto del Bosforo, nella parte asiatica della città, ha il volto affranto. L’altra mattina si è svegliato con il comizio di Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro in carica da 12 anni, sotto le finestre di casa. E’ fuggito in ufficio e ieri mattina ha votato, convinto di una vittoria dei laici. Ma alle 9 di sera la sua faccia racconta tutta la delusione di uno schieramento che, nemmeno nelle zone del centro di Istanbul, è riuscito a scalfire il potere del “sultano”. «E’ una débacle totale — dice sconfortato — risultato peggiore non potevamo immaginarlo».
Il corteo dei fedelissimi di Erdogan che avanza nelle strade di Besiktas e si diffonde nella metropoli spiega il successo del partito islamico di centro destra. La parola chiave, dicono gli osservatori, è la stabilità. Suggellata da una forza economica che, nonostante la crisi dell’ultimo anno, ha portato la Turchia nei primi dieci anni del Duemila a risultati di eccellenza assoluta, con un Pil da ritmi cinesi. E quartieri come Besiktas, o come Levent, così come Kadikoy dall’altra parte dello Stretto, appaiono le leve di un successo coniugato allo sviluppo economico. Tutte zone residenziali, buona borghesia, alberghi a cinque stelle. E megaprogetti che fanno sognare i turchi: centri commerciali di proporzioni colossali dove le famiglie possono svagarsi nel week end, una galleria sotterranea in grado di collegare le due rive del Bosforo, il lancio di un terzo ponte fra Europa e Asia. L’immagine insomma di una Turchia moderna, spregiudicata quanto il suo leader, eppure legata alle radici ancestrali dell’Anatolia, alle magie della Cappadocia e alle aree selvagge più lontane come Mar Nero e Kurdistan.
La rivolta di Gezi Park, cominciata come una protesta contro la minaccia di abbattimento dei 600 alberi di noce sul prato vicino alla centralissima Piazza Taksim, cuore di Istanbul, per far posto all’ennesimo megastore di cemento nel mare di asfalto della città, non ha inciso a sufficienza nei consensi che Erdogan è riuscito a ottenere nei dodici anni in cui ha rilanciato il Paese. E poco importa se la sua credibilità a livello internazionale è colata a picco per aver litigato con Israele, non convinto gli Stati Uniti, deluso le capitali arabe e allontanato la possibilità di Ankara di entrare in Europa. «Me ne frego di quello che diranno all’estero», ha gridato in piazza dopo aver chiuso Twitter e YouTube, gli odiati social network che lo irridono in rete, ma che hanno dimostrato ancora scarsa presa di fronte ai colossi mediatici come i giornali e le tv che controlla in gran parte. Una trama complessa, che fa dire alla coscienza civile della Turchia, il celebrato premio Nobel per la Letteratura, Orhan Pamuk, «non è la prima volta che viene bloccato YouTube: accadde anche nel 2008, tempi altrettanto duri per la libertà di stampa. Ma all’epoca almeno c’era speranza per il futuro. La situazione adesso sta andando da male in peggio, direi che sta divenendo terribile ».
Di fronte a una trasparenza mediatica opaca, alla vigilia si temevano brogli. Il ritorno all’ora legale è stato addirittura spostato di un giorno, nella paura che il cambiamento d’orario potesse incidere sulle operazioni di voto, coincidendo così per 24 ore con l’orario europeo. Eppure, nonostante il corposo dispiegamento di volontari nei seggi come osservatori, non c’è stato nulla di rilevante. Alla scuola elementare di Besiktas, ad esempio, l’afflusso alle urne è stato molto ordinato. Seduta su un banco, gli occhiali ben inforcati, la giovane Burcu, studentessa di biologia, ha seguito lo spoglio con attenzione. «Tutti quanti considerano queste elezioni come molto delicate — spiegava —Sono venuta qui, come molti altri miei colleghi in altri seggi, per controllare che tutto si svolga nella massima correttezza».
A sorpresa, nel seggio di Erdogan a Uskudar, nella parte asiatica della città, sono arrivate pure le Femen a seno nudo. «Ban Erdogan», mettete Erdogan al bando portavano scritto addosso. Sono state arrestate. Sul loro sito di Facebook, non ancora bloccato dalle autorità turche, si leggeva: «Femen insieme con le coraggiose attiviste turche vuole vietare Erdogan e la sua politica di chiusura di internet, di stato di polizia e di islamizzazione». Eppure proprio qui, come nel resto del Paese, il “sultano” ha imposto ancora una volta il suo marchio. Istanbul è la città che anni fa lo ha eletto sindaco e l’ha lanciato. Adesso diventa la città da cui riparte per convincere la Turchia a votarlo, il prossimo agosto, come presidente della Repubblica.