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 2014  marzo 31 Lunedì calendario

MUNICIPALIZZATE SE I COMUNI VENDONO 6 MILIARDI IN CASSA E (FORSE) MENO TASSE


Quanto valgono le partecipazioni in Borsa degli enti locali? Sei miliardi (5,95, valori al 26 marzo). Venderle, magari un pezzetto visto che sono tutte di maggioranza? Non se ne parla, sono congelate. Eppure il tesoretto potrebbe ripianare alcuni debiti. E, forse, ridurre anche le tasse.
Prendiamo il caso di Acea. La quota del Comune di Roma ( 51%) vale 1,145 miliardi. È l’equivalente del disavanzo strutturale (1,2 miliardi) accumulato dal Campidoglio, che il salva Roma chiede di sanare. Chissà, una cessione potrebbe anche risolvere i problemi di governance, vista la guerra all’arma bianca fra il sindaco Ignazio Marino, che vuole ridurre i nove consiglieri a cinque e cambiare i vertici, e il socio Gaz de France che vuole mantenerli perché ha versato 400 milioni e questo in Francia vuol dire due consiglieri (gli analisti di Kepler Cheuvreux scrivono: «Un rimescolamento del consiglio può essere negativo visti i buoni risultati raggiunti da questo board»). Ma l’Acea che in un anno, con la nuova gestione dell’amministratore delegato Paolo Gallo, è salita in Borsa del 155%, è l’ibernata municipale per eccellenza. Ci sono anche le altre privatizzazioni locali possibili e ferme.

La classifica
Ecco il valore delle partecipazioni pubbliche nelle otto quotate degli enti locali, calcolato per CorrierEconomia dall’Agici Finanza d’Impresa di Andrea Gilardoni, docente di Economia e gestione delle imprese in Bocconi. In ordine decrescente: 1,7 miliardi l’Hera di Bologna e dintorni, la più ricca e probabilmente la più virtuosa per apertura al mercato; 1,6 miliardi l’A2A di Milano e Brescia; 1,1 miliardi l‘Acea; 842 milioni l‘Iren di Torino, Genova e Reggio Emilia. Seguono sotto il miliardo le Ferrovie Nord Milano di Regione Lombardia, Fs e Gavio (166 milioni); l’Acsm-Agam di Como e Monza (66 milioni); la veneta Ascopiave (330 milioni); infine la Sap Acque Potabili (18 milioni). Totale, 5,95 miliardi e un fatturato complessivo di 20,7 miliardi (2012).
Non che nessuno si muova. La settimana scorsa Iren ha depositato in Consob l’offerta pubblica d’acquisto proprio sul 38% di Acque Potabili. E sempre Iren, in febbraio, ha stretto un accordo con Unieco per integrarne la Divisione ambiente. Ma di vendere non si parla: «Si perderebbero i dividendi», dicono sotto la Mole e altrove.

La selezione
Restano le non quotate. Ma quali scegliere nel vasto mare? Sono 7.340 le partecipate dalle amministrazioni pubbliche in Italia (dato 2011, Rapporto 2014 del Tesoro); e delle 6.151 del cui bilancio si dispone, il 33% è in perdita, in totale per 2,2 miliardi. Inoltre il 47% delle partecipazioni dei Comuni è concentrato nei centri fino a 5 mila abitanti. Patrimonio sbriciolato. Perciò, più che di privatizzazioni, meglio parlare di aggregazioni.
Sono 16 le società selezionate da Gilardoni. Sono ritenute interessanti per eventuali cessioni al mercato e aggregazioni, perché con fatturato sopra i 100 milioni e conti in ordine (vedi tabella sopra). Generano un giro d’affari di 8,2 miliardi. La più grande è la valdostana Cva, seguono la Dolomiti Energia di Trento e l’Atm della metrò milanese. Quindi la toscana Estra Prato, la padana Linea Group, la veronese Agsm, la Sel di Bolzano. Ottavo posto (classifica sul giro d’affari) «per l’Acquedotto Pugliese che è tornato in attivo», dice Gilardoni; nono per la veneziana Veritas, decimo per la mantovana Tea. A seguire altre sei, dalla Smat di Torino all’Amiacque lombarda (servizio idrico per entrambe).
«La quotazione in Borsa potrebbe essere una strada per alcune — dice Gilardoni — ma motivazioni politiche e finanziarie possono frenare ogni ipotesi di privatizzazione, anche parziale». Posto che le aziende che vanno male non le vuole nessuno (a meno che possa e voglia investire a debito), il punto è: perché cedere quelle che vanno bene? Per aiutare i bilanci dei Comuni, è una risposta: a patto che il ricavato non sia destinato alle spese correnti, ma a investimenti.
Perché è lì la grande sinergia del Paese, è l’altro motivo.
«Per l’aggregazione si possono seguire tre strade — dice Gilardoni —. Fra aziende medie; fra medie e grandi; o verticale, scorporando il settore idrico delle grandi quotate come Acea o Hera, per esempio, e conferendolo a un altro soggetto, che può anche essere a maggioranza pubblica, se si ritiene. Lo stesso sui rifiuti». Ma tutti gli operatori concordano: per spingere gli enti locali a vendere servono incentivi. «Va avviato un progetto per far sì che nascano le imprese pubbliche eccellenti», dice Gilardoni.
Ci ha provato il Fondo strategico della Cassa depositi e prestiti. Entrato in Hera (con quota minima, 7 milioni, rispetto ai 120 che aveva messo a disposizione), ha dato la disponibilità a investire 500 milioni per il consolidamento dei pubblici servizi.
Perché? Per conseguire economie di scala ed efficienza; poter investire nelle infrastrutture (si stima servano dieci miliardi nel ciclo idrico e 6,5 miliardi nel trattamento rifiuti, nei prossimi anni), in un settore che ha debiti in crescita e difficoltà di finanziamento; migliorare la governance; creare valore. Crescere, insomma. Ma il piano pare rallentato: serve tempo, ci vogliono i bandi e, soprattutto la volontà dell’ente di farli. E tutti i Comuni vogliono mantenere il controllo.
E se la spinta fosse data per decreto? Sotto un certo fatturato le aziende degli enti locali vanno fuse? L’idea comincia a circolare.