Sergio Romano, Corriere della Sera 31/3/2014, 31 marzo 2014
DEMOCRAZIA E NUOVE TECNOLOGIE LE FORZE CHE CAMBIANO IL MONDO
Nella sua Histoire du XIX siècle , Jules Michelet spiega: «Uno dei fatti più gravi (...) è che il ritmo del tempo è completamente cambiato. Ha raddoppiato il passo in maniera strana». Complice Internet, il ritmo del tempo sembra essersi accelerato ancor di più. Tutto si brucia in ore o minuti, a iniziare dall’informazione che è diventata spesso intrattenimento. Anziché fare un passo indietro, anche per durare nel tempo, i giornali sono un happening quotidiano, appesi ieri all’ultimo telegiornale, oggi all’ultimo tweet. Non abbiamo più memoria, non pensiamo più il futuro. Quali sono i rischi della mancanza di durevolezza nell’era dell’effimero?
Piero Heinze, Bruxelles
Caro Heinze,
Per una risposta sulla dimensione del tempo qualcuno potrebbe ricorrere alla relatività di Einstein, a Bergson e ad altri filosofi. Ma non è il mio mestiere e preferisco limitarmi a qualche pragmatica constatazione.
Il fenomeno, sempre più evidente, mi sembra collegato a due fattori della modernità: democrazia e tecnologia. Le macchine hanno modificato i metodi e i tempi della produzione industriale. Ai telai meccanici dobbiamo la concentrazione degli operai in uno stesso luogo. Ai treni dobbiamo la maggiore facilità di movimento da un luogo all’altro, la liberazione delle campagne dal loro tradizionale isolamento, la crescita delle grandi città. Alla concentrazione di masse che hanno eguali interessi e ambizioni, dobbiamo la nascita dei partiti politici, dei sindacati, dei movimenti per l’allargamento del suffragio e, in ultima analisi, una crescente partecipazione popolare alla cosa pubblica. Alle macchine per la stampa e alle rotative dobbiamo la nascita del giornale moderno e la sua crescente diffusione; alla telegrafia e alla telefonia la rapida circolazione delle notizie, delle opinioni, delle ideologie. Abbiamo visto nascere regimi liberali e autoritari, ma lo Stato moderno, indipendentemente dalle sue caratteristiche, è sempre, letteralmente, «democratico». Nessun leader, nemmeno il più tirannico e spietato, può prescindere dall’esistenza delle masse e dal peso che hanno, direttamente o indirettamente, nel suo sistema politico. La storia degli ultimi 250 anni è la storia di un’agorà che si allarga sempre più rapidamente ed è sempre più piena di uomini e donne che scambiano le loro opinioni, confrontano i loro interessi, decidono di allearsi per raggiungere uno stesso scopo o di combattersi per conquistare un bene difficilmente divisibile.
Le nuove tecnologie della comunicazione appartengono a questo processo, ma hanno avuto effetti quantitativi e qualitativi straordinariamente superiori a quelli prodotti dalle tecnologie precedenti. Hanno rimpicciolito il mondo, hanno accorciato le distanze, hanno dato a tutti il diritto d’interloquire, giudicare, annunciare, interpretare, diffondere notizie e teorie, proporre rimedi universali. Dalla democrazia rappresentativa, in cui il popolo veniva chiamato periodicamente alle urne per rinnovare o revocare il proprio mandato, siamo passati al voto quotidiano. Dal giornalismo in cui il redattore, soprattutto nella stampa più attendibile, verificava e controllava le notizie, siamo passati a una fabbrica dell’informazione in cui tutti possono confezionare una notizia e diffonderla. Verrà bruciata, prima o dopo, da correzioni e smentite, ma non senza avere contagiato i creduli e inutilmente occupato una parte del nostro tempo. Il fenomeno diventa ancora più inquietante nei Paesi in cui una crisi politica ed economica crea malumori e malesseri generalmente diretti contro la classe dirigente. In un mondo di saggi l’uomo politico dovrebbe dichiarare che renderà conto del suo mandato quando gli elettori torneranno alle urne e che non intende perdere il suo tempo e quello della nazione rispondendo all’ultimo tweet. Ma anche l’uomo politico, malauguratamente, alimenta questo malvezzo ricercando i 140 caratteri con cui risponderà al nulla con il nulla.