Marco Bucciantini, L’Unità 30/3/2014, 30 marzo 2014
DUE AMICI E UNA GUERRA – [FISCHER-SPASSKY, LE MOSSE AI TEMPI DEL GRANDE FREDDO]
LA LETTERA ARRIVÒ SULLA SCRIVANIA PIÙ INFLUENTE DEL PIANETA, DENTRO LA STANZA COSIDDETTA OVALE, PER LA FORMA ELLITTICA. GEORGE WALKER BUSH LESSE CON CRESCENTE STUPORE: QUELLE PAROLE DISSOTTERRAVANO UN PEZZO DI STORIA. «Signor Presidente, nel 1972 Bobby Fischer divenne un eroe nazionale. Mi sconfisse nel match per il campionato del mondo a Reykjavik, sbaragliando l’armata dei grandi scacchisti sovietici: un solo uomo sconfisse un’intera armata». Questa la premessa. Il mittente è Boris Spassky, e ha un’urgenza: Fischer è in carcere, detenuto in una stanza dell’aeroporto Narita (che serve Tokio). È il 2004, è stato arrestato per un fatto datato, per aver violato l’embargo per i cittadini statunitensi a entrare in suolo jugoslavo, dove invece si recò nel 1992 per rievocare davanti alla scacchiera l’incontro di 20 anni prima: l’incontro più famoso e importante nella storia degli scacchi. «La partita del secolo», semplicemente.
Per quel revival la Corte distrettuale americana emise un mandato di arresto per l’uccel di bosco. Fischer era imprendibile, si muoveva nel mondo come può fare la Regina in partita: ovunque. Quel giorno dell’estate del ??? lo identificarono all’aeroporto giapponese, barba lunghissima e bianca, un cappello da ragazzo sulla testa calva, vestito in modo trasandato. Cercava di lasciare il Giappone con un passaporto scaduto e non rinnovabile, perché invalidato dalla sua patria. Gli Stati Uniti ne chiesero immediatamente l’estradizione. E Spassky – nel frattempo divenuto cittadino francese – scrisse al presidente Bush. Le ultime righe: «La legge è legge, non lo metto in dubbio, ma quello di Fischer non è un caso comune. Bobby ha una personalità tormentata: è onesto e altruista, ma assolutamente asociale. Non si adegua al modo di vita di tutti, ha un elevatissimo senso della giustizia e non è disposto a compromessi né con sé stesso né con il prossimo. È una persona che agisce quasi sempre a proprio svantaggio. Lui è fatto così. Vorrei chiederle soltanto una cosa: la grazia, la clemenza. Ma se per caso non fosse possibile, vorrei chiederle questo: la prego, corregga l’errore che ha commesso. François Mitterrand nel 1992. Bobby ed io ci siamo macchiati dello stesso crimine. Applichi quindi le sanzioni anche contro di me: mi arresti, mi metta in cella con Bobby Fischer e ci faccia avere una scacchiera».
Queste parole raccontano un’amicizia nata e cresciuta sul filo sottile che teneva insieme il mondo, nel secolo breve. Quella permanente minaccia, quella cappa di tensione che ammantava tutti a occidente come oltrecortina. Sostanzialmente un equilibro «terroristico», forse più robusto di quanto dovesse essere percepito. Qui s’incontrarono Spassky e Fischer: molte volte. Ma quella volta, a Reykjavik, divenne una data nel calendario della Guerra Fredda: per nazionalità degli sfidanti (e natura dei caratteri) ne simboleggiò la forma archetipa. La preparazione dell’evento ne mostrò gli schemi, lo svolgimento (e nel legame che si creò “partita dopo partita” fra i due rivali) ne alterò i segni fino alla parodia, e dunque ne rivelò le debolezze e l’ineluttabile superamento: la lettera 32 anni dopo di un ex cittadino sovietico al presidente degli Stati Uniti smaschera mezzo secolo di storia.
La partita del secolo, allora. Anzi, prima gli scacchi che sono già di per sé una guerra, notò un giorno Stefano Bartezzaghi. «L’araldica dei pezzi ritrae un esercito, insieme assediante e assediato: la fanteria che avanza piano, la cavalleria che scarta di lato, i portabandiera che attraversano il campo in diagonale (ma in inglese il nostro alfiere è un vescovo, bishop, e in francese un matto, fou), i torrioni di rinforzo ai lati e i potenti che si spartiscono il ruolo attivo e offensivo della regina e quello passivo e difensivo del re». E poi l’Urss, Lenin appassionato scacchista (come Marx e Trotzkij) e l’ideologia che trovava nella scacchiera uno sbocco limpido: un gioco che non ha un accesso classista, che abrogava il livello della fortuna individuale: «perfettamente ortodosso per il materialismo storico». E le cose si fecero in larga scala, come usava da quelle parti: con lo slogan «diamo gli scacchi ai lavoratori» si contarono presto decine di milioni di praticanti e questa fu la base demografica che assicurò il dominio nelle competizioni internazionali. Per capire come il gioco fosse allacciato al potere, il primo campione di quella scuola, Mikhail Botvinnik, descrisse il proprio stile come contrapposto a quello capitalistico, statico e puntato sull’apertura e l’attacco: vantava la capacità sovietica di adattarsi a ogni nuova situazione di gioco. Quella duttilità che fu la massima dote di Spassky e che gli americani definivano “passività”, così somigliante allo stereotipo che volevano veicolare. Non è un caso che Putin sappia poco di scacchi, e sia invece fenomenale judoka: non attendista ma contrattaccante rapido e ferale, che fa leva e si nutre della forza altrui, per farle più male. È invece appena più casuale – ma fa piacere ricordarlo – che il più grande scacchista di tutti tempi. Garri Kasparov, è stato suo fiero oppositore politico.
Torniamo a Botvinnik: ogni volta che vinceva un match, mandava un telegramma a Stalin, per ringraziarlo dell’aiuto ricevuto. I maestri di scacchi sovietici venivano infatti sostenuti dallo Stato con stipendi, status privilegiati, possibilità di viaggi all’estero, ma anche puniti con severità dopo le sconfitte (capitò, dopo il match con Fischer, anche a Spassky). Il dittatore lesse il telegramma più atteso nel ‘45, a guerra terminata: i sovietici sconfissero gli americani 15,5 a 4,5 in una partita giocata “via radio”. Andò avanti così, fino agli anni sessanta, quando il giovanotto di Chicago cominciò a battere i “rossi”.
Bobby Fischer era l’opposto, impostava la propria strategia sull’attacco puro, «l’obiettivo è spezzare la mente degli avversari, voglio vederli contorcersi». Suo padre era un biofisico tedesco, la madre un’operaia tessile. Si conobbero a Berlino, si trasferirono a Chicago, poi Gherard Fischer tornò in patria, lasciando lei e il piccolo Bobby: «Avevo due anni. Sono cresciuto senza la figura paterna, e sono diventato un lupo», raccontò poi lo scacchista. Il soggiorno berlinese non sfuggì all’Fbi che per questo attenzione la madre per tutta la vita, considerandola una possibile spia sovietica. Si seppe dopo molti anni, rintracciando le notizie nel dossier dei federali. Pagine che lasciano intendere una possibile paternità diversa (di un dissidente ungherese) per il futuro campione. La miseria muove la signora verso la California e poi dall’altra parte dell’America, a Brooklyn. Qui Bobby conobbe gli scacchi e per 29 anni ebbe un solo costante obiettivo: diventare il campione del mondo. Non vinceva sempre, ma sempre impressionava. E comunque vinse nettamente (contro i sovietici) le partite che lo decretarono sfidante di Spassky, campione del mondo dal 1969 allorquando sconfisse Tigran Petrosian.
Spassky era un uomo mite, educato, allevato agli scacchi ma non ossessionato: ascoltava musica classica e suonava» correva, leggeva. Viveva. Intorno a lui però l’apparato costruì una macchina per impattare l’estroso americano. Un lavoro che coinvolse vecchi maestri del gioco e giovani colonnelli del Kgb, lo raccontano i giornalisti Dmitrij Plisetkij e Sergej Voronkoj nel libro I russi contro Fischer. i due hanno potuto consultare gli archivi del partito comunista dell’Unione Sovietica. In quei fogli c’era tutta la personalità di Fischer, c’era tutto quello che – in fondo – i sovietici temevano, perfino il dubbio che l’altro conoscesse e usasse tecniche di persuasione mentale. C’era la paura di un crollo dell’Impero. Successe.
Come ogni altra disciplina sportiva o artistica, anche gli scacchi furono al centro della macchina propagandistica del Cremlino e della Casa Bianca. Entrambe le nazioni utilizzavano ogni aspetto della vita sociale per ribadire la superiorità del proprio sistema politico rispetto all’altro. L’imbattibilità nei tornei internazionali era per l’Unione Sovietica una prova della superiorità intellettuale nei confronti del capitalismo. E per gli americani il campionato mondiale che si svolse a Reykjavik l’11 luglio 1972 divenne il momento per rovesciare clamorosamente questo primato.
La delegazione russa si presentò puntuale, Spassky in testa, con una dozzina di Gran Maestri fra i consiglieri ammessi alla sfida. La delegazione americana si presentò invece in un forte ritardo: Fischer non voleva salire sull’aereo, per millanta motivi (anche economici: gli raddoppiarono il premio). Lo chiamò Henry Kissinger: «Sono il peggior giocatore d’America, vorrei parlare con il più forte». Ma Fischer difettava del senso dell’umorismo. Il consigliere del presidente Nixon la fece spiccia: «Devi battere i sovietici». Arrivato a Reykjavik, Fischer chiese di avere in albergo un ristorante aperto 24 ore su 24, una persona che giocasse a tennis con lui quando ne aveva voglia e che gli fossero date le chiavi di una pista da bowling per poterci andare in ogni momento. Poi volle cambiare stanza perché quella disposta era troppo grande e chiassosa (dopo due partite accettò di tornare nell’altra, anche perché stava perdendo), e volle l’aria condizionata a 24 gradi (Spassky chiese 21 gradi: si mediò a 22,5). Volle il verde invece del nero sulla scacchiera (respinto), volle sedie diverse (accolto). Bloccò le telecamere che lo deconcentravano. Di quella partita restano appena cinque foto.
Spassky partì bene, poi l’altro lo spezzò: la tredicesima partita avvantaggiò Fischer in modo risolutorio. L’americano vinse, e sparì, per riapparire poche volte e quasi sempre delirante. Morì il 17 gennaio del 2008, proprio a Reykjavik e lì è sepolto, in terra lontana da tutto e da tutti, perfetta per incontrarsi in tempi di Guerra Fredda. Boris Spassky vive in Francia, ha il cuore ferito da due infarti, e conserva una lettera.