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 2014  marzo 30 Domenica calendario

LA GRANDE GUERRA FATTA DAI MEDIA – [OLTRE ALLE ARMI, LE NAZIONI IN LOTTA USARONO ANCHE FOTO, FILM, MANIFESTI]


LA GRANDE GUERRA ’14-’18 FU, FORSE PER LA PRIMA VOLTA, anche una guerra mediatica. Con i mezzi e gli strumenti di allora, ovviamente. Bisogna subito aggiungere che tutte le nazioni in lotta utilizzarono, oltre alle armi nuove per uccidere e sterminare, anche mezzi che non erano mai stati messi in campo prima: i grandi manifesti, gli appelli, i discorsi, le cartoline in tricromia, le fotografie, il cinema, le pubblicazioni a puntate e illustrate, il cinema, i documentari, le attualità cinematografiche, i film, i «servizi» scritti dagli inviati, i giornaletti per la truppa, i disegni, le incisioni, gli spettacoli teatrali; i canti e le canzonette, la poesia, i racconti di autori notissimi, le «imprese militari», portate a termine per semplici fini di propaganda e quelle per «impressionare» il nemico. Ogni esercito in lotta, ogni stato maggiore, ogni governo, provvide ad istituire apposite sezioni di propaganda e gruppi di operatori fotocinematografici che vennero disseminati sui vari fronti per le «riprese dal vero in mezzo alle trincee».
Ora, per il centenario del «grande massacro», quel che è rimasto di quei materiali sarà utilizzato per mostre, incontri, dibattiti, iniziative culturali e politiche. Sarebbe doveroso tentare di recuperare anche le lettere censurate dei poveri fanti, mai arrivate a casa o le foto allora ritenute «non pubblicabili» e disperse chissà dove. Se non altro per rispetto verso migliaia e migliaia di poveri morti che lasciarono le loro vite sul Carso, sul Pasubio e su tutti gli altri «monti maledetti», mille volte persi e mille volte riconquistati nelle assurde battaglie di posizione e di attacco frontale, ordinate dal «generalissimo» Luigi Cadorna, con la sua strategia delle «spallate».
A questo punto sarà bene puntare l’attenzione sulla storia della fotografia e su quella del cinema per capire la «guerra mediatica» e gli strumenti utilizzati per la propaganda durante il primo conflitto mondiale. Insomma, partire da lontano, dai vecchi tempi, quando non era ancora possibile pubblicare direttamente le foto sui giornali. Gli incisori, dalle immagini, ricavavano, come si sa, un disegno per poi certificare la veridicità del proprio lavoro con la piccola scritta: «Da vera fotografia». Il lettore, così, si sentiva garantito: quel che stava guardando era, in assoluto, la cosa più vera del mondo. Naturalmente non era così. Per la grande guerra, però, le cosiddette «immagini ottiche» potevano ormai essere stampate alla perfezione sui giornali e in diretta: battaglia per battaglia. Gli alti comandi italiani avevano, inoltre, a disposizione decine di giornalisti che raccontavano ai lettori tutte le vicende militari secondo il punto di vista di Cadorna che riceveva continuamente il direttore del «Corriere della Sera» Luigi Alberini, il «poetone» (come qualcuno lo chiamava) Gabriele D’Annunzio, Ugo Ojetti, Luigi Barzini e tantissimi altri cantori dell’interventismo, solerti sostenitori della guerra «come unica igiene del mondo». Ovviamente c’erano anche gli interventisti democratici, socialisti e autenticamente patrioti, ma tra mille polemiche. Proprio gli interventisti più sciovinisti erano comunque riusciti a far credere a tutto il Paese, con l’aiuto della stampa benpensante e del governo, che la guerra era il completamento del Risorgimento e che ci si doveva battere per la definitiva unità della Patria. Lo stesso D’Annunzio aveva tenuto un importante discorso, per convincere tutti ad andare al fronte, presso lo scoglio di Quarto da dove erano partiti i Mille. Più tardi sorvolerà Vienna con una squadriglia di aerei per gettare manifestini inneggianti all’Italia. Una grande trovata mediatica, come fu già chiaro allora. Qualche generale spiegò, inascoltato, che gli «alti comandi erano bravissimi nel farsi la reclame, ma per il resto...». E furono proprio gli alti comandi, per tutta la guerra, a far pubblicare soltanto immagini «positive», nelle quali si dovevano vedere i nemici morti e i nostri continuamente all’attacco. Niente bersaglieri o alpini massacrati e, dunque, niente trincee piene di fango, sangue e merda (sì, proprio merda perché non c’erano alternative), niente cannoni fracassati, niente medici senza medicine o battaglioni italiani sotto bombardamento delle stesse artiglierie del nostro esercito, niente decimazioni o ritirate.
La fotografia, all’inizio del secolo, aveva avuto un grandissimo sviluppo ed era la passione del momento, soprattutto tra le classi borghesi e il ceto medio. Non c’era impiegato, professionista, nobile o alto ufficiale che non si facesse vedere in giro con la propria «Vest Pochet Kodak» e la Kodak stessa faceva pubblicità tra gli ufficiali e soldati perché portassero in battaglia la propria macchina fotografica. Quelle, naturalmente, furono le uniche immagini non censurate. Lo stesso re Vittorio Emanuele III era un fotografo appassionato, ma nelle retrovie del fronte, si occupava soltanto di ritrarre paesaggi, mezzi in movimento e tramonti.
Il rapporto tra fotografia e guerra era comunque già antico nel 1915: erano stati già ripresi i combattimenti tra i garibaldini e i francesi, a Roma nel 1849, le battaglie dei Mille a Palermo, la Guerra di secessione americana, il bombardamento di Parigi nel 1870, durante la Comune, la Guerra di Crimea del 1856. E gli italiani avevano fatto uso delle macchine fotografiche in Africa e poi in Libia nel 1911. Nella Grande Guerra l’Italia – sono dati non ufficiali – schierò circa 600 soldati-fotografi, con tanto di carri al seguito per lo sviluppo e la stampa dei materiali. Furono scattate, pare, circa 150mila fotografie. Parte furono distrutte sul posto dalla censura, altre si persero, sempre censurate, in cassetti e armadi di mille diversi archivi. Quelle «meno brutali» furono utilizzate, in parte, per una famosa pubblicazione della Casa Editrice Treves intitolata: La Guerra, uscita in sedici lussuosi fascicoli che ebbero grande successo. Il resto venne distribuito ad altri giornali. Gli austriaci, invece, diffusero in mezza Europa la sequenza impressionante e terribile dell’impiccagione di Cesare Battisti. Doveva essere un esempio da far vedere a tutti.
Per quanto riguarda il cinema, l’Italia aveva uno splendido regista e documentarista che si chiamava Luca Comerio che mollò tutto e si precipitò al fronte già nel 1915, raccomandato da Vittorio Emanuele. Realizzò alcuni documentari, ma poi venne messo alla porta: le sue immagini cinematografiche erano troppo realiste e disturbavano. Di film veri e propri, negli anni della guerra e sulla guerra, pare – insisto sul pare – ne sia stato realizzato uno solo. Il titolo era: Maciste alpino.