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 2014  marzo 30 Domenica calendario

FERRAGAMO: «SFIDA IN TRE MOSSE»


L’IMPRENDITORE
Firenze, palazzo Spini, 9 del mattino. Ferruccio Ferragamo, presidente dell’azienda di famiglia nella quale è entrato ragazzino, nel 1963, parla al telefono con la mamma, la mitica e ultranovantenne signora Wanda: «Sì, mamma, sto incontrando la giornalista. Sì, te la saluto». Mette giù, sorride: «Ancora oggi, mia madre segue tutto con meticolosa attenzione».
Le famiglie italiane sono spesso velenose: intossicano il futuro di un’azienda: liti per l’eredità, incapacità di dirimere conflitti tra figli del primo e del secondo matrimonio... I Ferragamo, invece, hanno fissato regole ferree e a queste si attengono. Per il momento con grande successo.
Conflitti familiari: come li avete evitati?
«Con tre mosse. La prima: stipendi uguali per tutti noi sei fratelli. Siamo entrati in azienda giovanissimi e nessuno di noi ha fatto l’università. Siamo ignorantoni - ride - Ferragamo è rimasta per scelta un’azienda piccola, certo, ma ognuno di noi ha trovato una collocazione. Io sono stato a.d. per 24 anni e avevo lo stesso stipendio degli altri. Mi sembrava ingiusto e me ne lamentavo con mia madre, ma oggi capisco: è stata un’idea geniale. Se avessi guadagnato più dei miei fratelli, avremmo passato il tempo a discutere di soldi invece che di progetti per l’azienda».
Questo riguarda il passato della Ferragamo. E per il futuro come vi siete regolati?
«Seconda mossa: fissare in anticipo le regole sulla successione. In tutto, noi sei fratelli abbiamo 25 figli: è stabilito che solo 3 di loro entreranno in azienda. E spero che nessuno dei tre si senta figlio di papà per essere stato scelto. Devono meritarselo. Al di là della laurea, del master, delle lingue, tutte cose scontate, devono aver lavorato per tre anni in un’azienda diversa dalla nostra. Mio figlio James è stato da Saks Fifth Avenue. Angelica ha lavorato in comunicazione e prima aveva fatto l’analista finanziaria. Devono capire che c’è un orario da rispettare, dei colleghi con cui andare d’accordo».
La terza mossa?
«Rispettare le regole. Se compro un paio di scarpe in negozio le pago. E le regole vanno fissate quando non servono. Quella sull’ingresso dei figli in azienda l’abbiamo fatta quando erano piccoli. Se aspetti, finisci per creare regole ad hoc, a difesa dei più deboli».
Con i suoi sei figli come si è comportato?
«James è in azienda. Per gli altri abbiamo diversificato in varie attività: io ho un’azienda agricola, mio fratello è nella nautica. A parte la Salvatore Ferragamo che è quotata, abbiamo investito in imprese non collegate alla moda. Naturalmente, non tutti gli investimenti vanno bene: Ungaro per esempio, non è andato. Ci è servito per capire che ognuno deve fare il suo mestiere».
E se uno dei figli volesse occuparsi di moda?
«Mia figlia Vivia sogna di fare moda. È una vera passione. Invece di dirle "fai la stilista da noi", l’ho aiutata personalmente a creare una sua azienda. Purtroppo la crisi tra il 2006 e il 2008 non l’ha aiutata. Ho fatto presente a Vivia che quello che investivo per lei, avrei dovuto darlo anche agli altri. Mi ha detto: "Papà chiudiamo". Intendiamoci: l’ho aiutata perché ho valutato il suo lavoro, ho visto che aveva talento. Però per andar d’accordo in famiglia bisogna rispettare le regole. Se Vivia fosse entrata in azienda sicuramente qualcuno in famiglia si sarebbe chiesto: perché lei? E invece il perché non deve esserci».
Come immagina la Ferragamo tra vent’anni?
«Intanto, spero di essere ancora nei paraggi e di poter dire la mia. Ma se invece fossi passato ai piani più alti, spero che sia un’azienda che lavori in accordo con gli azionisti. Non facciamo progetti a lunga scadenza, il mondo cambia troppo velocemente».
Palazzo Spini è l’orgoglio della famiglia Ferragamo e il presidente Ferruccio non lo nasconde. La storia di come suo padre, appena uscito da un fallimento, riuscì a comprare la prestigiosa residenza potrebbe essere la metafora sulla caduta e risalita dell’Italia.
Questa era la sede del Comune ai tempi in cui Firenze fu capitale d’Italia.
«Mio padre comprò il palazzo nel 1936, a rate. Lui usciva da un fallimento, c’era stata la crisi del ’29, ma a 33 anni era cosi sicuro di sè da comprare a rate un palazzo. Chi glielo vendette mise una clausola: se non avesse pagato l’ultima rata, palazzo Spini sarebbe tornato al venditore. Ma mio padre era fatto così, sapeva rischiare. Quando, ragazzo, andò a lavorare negli Stati Uniti, invece di accettare il posto in fabbrica aprì un negozio a Santa Monica. E fu la sua fortuna».
Così eravamo. Come siamo diventati?
«Non credo siano cambiati gli italiani, è cambiato il contesto. Prima eravamo molto competitivi, venivano dall’estero a investire da noi. Forse davamo anche più certezze. Oggi l’Italia non è competitiva. Il marchio made in Italy è uno dei tre brand più noti al mondo e non sappiamo sfruttarlo come dovremmo. Ci mancava un buon governo: speriamo che Matteo Renzi possa realizzare quello che ha in mente».
La vostra azienda non si è arresa. Perché?
«Questa è un’azienda fatta di testoni, di gente tenace. Me l’ha insegnato mia madre, che a 92 anni viene in ufficio e si lamenta se non la teniamo debitamente informata. Me l’ha insegnato la tenacia di mio padre. La sua passione. E poi abbiamo la fortuna di vendere in 103 paesi del mondo: il deficit di un mercato si compensa con la crescita di un altro».
Perché l’Italia non è riuscita a darsi quel polo del lusso che ha fatto della Francia il numero uno del settore?
«Perché siamo individualisti. I francesi a casa loro si scannano, ma se devono entrare in un mercato fanno fronte comune. Lo vedo anche in settori diversi dalla moda: io produco vino e se guardo alla Cina, constato che i francesi hanno più del 50 per cento del mercato cinese di importazione. Gli italiani invece vanno lì, ciascuno col suo piccolo stand... Il Comité Colbert in Francia è capace di far tremare il governo se una richiesta non viene accolta. Noi italiani siamo già contenti se un ministro ci riceve».
L’individualismo è un limite degli italiani?
«Sì, se dobbiamo andare a conquistare un mercato. Serve quando c’è da trascinare con l’entusiasmo un’azienda. La grande qualità degli italiani è genialità e creatività insieme. Quando parlo con gli artigiani vedo proprio bollire la pentola, hanno idee come nessun altro».
L’urgenza nel nostro Paese?
«Lavorare sulla competitività. Abbiamo costo del lavoro, tasse, banche non aggiornate ai tempi. Non c’è differenza tra l’azienda che deve competere nel mercato e l’Italia che deve competere nel mondo. Se fanno bene entrambe, l’Italia conoscerà un nuovo boom. Negli ultimi nove mesi hanno chiuso diecimila aziende. Che prospettiva possiamo dare ai giovani se il 42 per cento non trova lavoro? Quale classe dirigente avremo tra dieci anni? Con quali manager manderemo avanti le aziende?».
La disoccupazione giovanile in Italia supera il 40 per cento, eppure una brava modellista potrebbe guadagnare più di un professionista. Quanti lo sanno?
«Gli studenti della scuola di cui ho l’onore di essere presidente, il Polimoda, lo sanno. L’81 per cento dei diplomati al Polimoda nel giro di sei mesi trova lavoro».
Vi hanno chiesto di vendere, eh?
«Tante volte».
Ne avete discusso?
«No. Gliel’ho detto, per noi è stato un complimento. Ci ha stimolato a fare meglio».