Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 30/3/2014, 30 marzo 2014
A ME DEL CINEMA NON FREGA NULLA SONO INDIFFERENTE
[Roberto Rossellini]
Rossellini, il film che l’ha lanciata è stato “Roma città aperta”, contestato in Italia, grande successo in America, una vicenda che ha il sapore del romanzo.
Per poterlo realizzare ho usato mille espedienti: rubavamo la luce alla Sala Corse di via Avignonesi, dove avevano piazzato la redazione del giornale americano Stars and Stripe. La pellicola negativa non esisteva, comperavamo spezzoni da venti, trenta metri dagli scattini, i fotografi ambulanti. Ubaldo Arata, l’operatore, fece miracoli, le riprese le realizzammo un po’ con il negativo e un po’ con la pellicola positiva. Marcello Pagliero, il protagonista, era mio compagno di scuola, Anna Magnani aveva alle spalle soltanto una particina in un filmetto di De Sica, una sciantosa invadente e crudele. Ho fatto sei milioni di debiti, che mi sono portato dietro per la vita. Quando uscì, le recensioni furono tremende: “Bruttissimo, banalissimo”, “Questo cretino che confonde la cronaca con l’arte”. Sono stato sempre coperto d’insulti. I critici hanno il loro schema, se lo sono fabbricato amorevolmente, guai se esci fuori. La prima di Paisà fu a Venezia. Era morto Romano, mio figlio di nove anni, non volevo vedere nessuno, non uscii dalla camera. Il portiere dell’albergo mi portò un pacco di giornali. Lessi: “La mente ottenebra il regista”. Per Germania anno zero, furono più gentili: ero diventato involuto.
Questo la ferisce?
No. Sono perfettamente cosciente che la mia indipendenza rompe le scatole a tutti. Sono anche rispettato da un sacco di persone, odiato da altri.
Questa ondata di rancore nei suoi confronti, francamente non la sento.
Per questo, neppure io. Vivo talmente isolato, lavoro venti ore al giorno. Se ti preoccupi di oggi lasci un ricordo, non un segno. La ricchezza economica, i trionfi effimeri, li ho sempre respinti. “Grazie papà”, dicono i miei figli, “che non ci lascerai la preoccupazione dei soldi, quando non ci sarai più”. Se non la pensassi così sarei o uno stupido o un mostro, per tutte le buone occasioni che ho sprecato.
Lei lascerà il segno: il neorealismo, i film che ha fatto, appunto “Roma città aperta”.
Ho conosciuto Fellini all’epoca del film, collaborò alla sceneggiatura. Fu un rapporto molto fecondo, chiacchieravamo all’infinito. Gli altri sceneggiatori erano Sergio Amidei e Alberto Consiglio. Un soldato americano, in un bar di via Frattina, comperò la pellicola senza contratto, per 28 mila dollari. La programmarono in una piccola sala di New York per 38 mesi di fila. Ingrid Bergman la vide lì. Voleva scrivermi una lettera, ma non sapeva dove indirizzarla. Un italiano, per strada, le chiese un autografo, e la consigliò di mandarla alla società Minerva. Diceva: “Se avete bisogno di un’attrice svedese che parla bene in inglese, ha dimenticato il suo tedesco, che si esprime in un francese non molto comprensibile e che in italiano sa dire solo t’amo, sono pronta a venire con voi”. Ingrid, aveva già ricevuto il primo Oscar, ma non avevo visto i suoi film; la Minerva fu distrutta dalle fiamme di un terribile incendio, ma quella busta spedita da Hollywood arrivò. Facemmo Stromboli terra di Dio e la stampa disse: “Rossellini ha rovinato la Bergman per sempre”.
Con “Roma città aperta” il cinema neorealista fece il giro del mondo. Nessuno dimenticherà le albe livide e le facce disperate di quella Roma nazista.
La speranza era quella di far diventare il cinematografo uno strumento utile. Con Roma città aperta ho innovato tanto. Allora era impensabile girare in ambiente vero e non ricostruito in un teatro di posa, che era il luogo in cui si celebrava il grande rito del cinema; la strada, quella vera, era completamente sconosciuta al cinema di allora. Volevo fare un cinematografo accessibile a tutti: uscire dalla produzione industriale, con tutte le schiavitù che comportava. Abbiamo fallito. Di questo modo di fare cinema se ne sono appropriati gli stessi industriali che pensano solo all’incasso. Cinema utile lo intendo sul piano sociale, educativo, sul piano dell’insegnamento del vivere civile. Dobbiamo ammetterlo: il cinematografo non è diventato affatto utile, salvo qualche raro caso perché fatto da persone serie.
Il rapporto con i suoi film?
Bisogna essere mobili non coerenti. Rifiuto accuratamente di costruire il monumento a me stesso. Mai rivisti i miei film; se mi piacciono, sono fottuto, se non mi vanno, peggio. Appena terminati li abbandono. Solo il Messia, l’ho proiettato tredici, quattordici volte, perché ci ho trovato dentro quello che ho cercato di fare per quarant’anni. Se non c’è un po’ di follia, l’esistenza per me non ha senso.
E il successo?
Una scocciatura; è disturbante perché ti lega. Gli attacchi sono sempre condizione di sfida. Quando realizzai Viva l’Italia, fui stroncato anche da l’Unità. A Togliatti era piaciuto, e mi scrisse per scusarsi: “Si dice che siamo un partito monolitico. Come vede, non è vero”. Io anelo alla libertà, io voglio essere veramente libero.
Lei ha conosciuto grandi politici come il Mahatma Gandhi, Nehru, Allende, che ricordi ha?
Gandhi l’ho conosciuto nel ’31 o nel ’32, quando passò da Roma. Ha abitato per alcuni giorni nell’appartamento in cui sono nato. Era considerato un santo, invece io ho avuto la sensazione di avere a che fare con un uomo d’azione, molto rapido, veloce. Nehru, l’erede di Gandhi, era dolce, distaccato. L’ho conosciuto quando sono andato in India a girare per il telegiornale, alla fine degli anni Cinquanta. Era amatissimo dal popolo al punto che se avesse voluto sarebbe potuto diventare un dittatore. Nehru ha dedicato se stesso per portare in India la democrazia. Salvador Allende l’ho incontrato nel 1971.
Abbiamo messo in onda l’intervista qualche giorno dopo la sua morte, avvenuta l’11 settembre 1973, con la sua introduzione.
Quando incontrai Allende era presidente del Cile da qualche mese. Voleva dimostrare che il socialismo in Cile sarebbe stato portato avanti con tutte le regole della democrazia. Uno dei punti fondamentali del suo pensiero era che non ci potevano essere due morali: una dello Stato, dei politici, cioè del potere e una dei cittadini. Le morali devono essere uguali. Allende era per la chiarezza assoluta, la sincerità. Il rifiuto totale della furberia. Attorno a lui c’era un odio furibondo, completamente irrazionale: sui giornali si leggevano cose incredibili, la moglie era descritta piena di amanti, invece era una signora gentile di cui si poteva dire tutto, ma non che fosse una Messalina.
Chi erano i suoi nemici?
I fascisti. Il Cile è un paese denso di fascisti nostalgici. Lui aveva l’idea di fare la rivoluzione senza fare la rivoluzione, senza le armi, intendo.
Che cosa ha realizzato secondo lei?
Ha raggiunto il martirio. Oggi Allende ha conquistato una dimensione che non avrebbe raggiunto se fosse morto nel suo letto.
Rossellini, la maturità che cosa le ha portato?
La convinzione che bisogna dare un’informazione precisa, senza l’uso della seduzione e la volontà di persuadere sempre chi ascolta. Diceva il filosofo François de La Rochefoucauld: “Più si diventa vecchi, più si diventa pazzi, più si diventa saggi”. Del cinema, non mi frega nulla. Sì, sono indifferente. Disprezzo l’artista, l’intellettuale: importante è imparare il mistero di uomo. Mi occupo di me stesso. Non ci sono ancora riuscito. Mi impegno ogni giorno a demolire la mia ignoranza, ma arrivo appena a scalfirla.
Qualcuno ha detto che lei prima si è occupato di Cristo, per far contenta la Dc; adesso che sta cercando finanziamenti per realizzare un film su Marx, va in pari con le sinistre.
Ho risposto a uno studente che mi faceva questo rilievo: “Quello che tu dici rivela una mentalità che è anche la tua: quella di un servo”.
C’è qualche sua opera che ama particolarmente?
Nessuna. Ciò che è stato fatto deve essere dimenticato.
Come vive, Rossellini?
La notte scrivo sempre. Mi sveglio alle sette, alle otto prendo il caffè, sfoglio i quotidiani, faccio anche i cruciverba, poltrisco, mi lavo, sono lento. Durante la giornata penso all’organizzazione e alla cassa, come finanziare i progetti. Leggo quattordici, quindici libri assieme, altrimenti mi annoio. Annoto tutto, poi distribuisco nelle rubriche: sentimento, pensiero, intelligenza.
È stato duro?
Nel ’47 mi hanno chiamato per ritirarmi il passaporto, perché ero l’autore di Roma città aperta e di Paisà, sostenevano che i panni sporchi si lavano in casa. Lavorare con dignità ha un prezzo altissimo, non ho mai avuto un momento di tregua. Ma sono riuscito a non essere vendicativo. Rifarei tutto.
Pentimenti, rimpianti?
Non ne ho. Le sembrerò presuntuoso; ogni fatto è un arricchimento.
Qualche modello?
Bisogna dire Marx, Engels, Cristo, l’umanista Leon Battista Alberti, che è poco conosciuto, e il mio caro Comenio, il difensore dell’istruzione pubblica. Bisogna insegnare a rifletter e non quello che si deve pensare. Siamo alla fine di una civiltà, e in uno stato di smarrimento. Nella Roma della decadenza, al teatro di Marcello, c’era in scena un toro che copriva una fanciulla, e si discuteva anche allora di divismo, di emancipazione, di pornografia. Non sono stati i barbari a far crollare quel mondo. Sant’Ambrogio predicava contro uomini e donne che vestivano in modo uguale, e siamo all’unisex. Quando scoppiano i movimenti di rivolta, indossano sempre gli abiti dei primitivi.
Lei ha detto che “Roma città aperta” è il film della paura di tutti, soprattutto della sua: teme ancora qualcosa?
No, io non ho nessuna paura.