Lucio Luzzatto, Il Sole 24 Ore 30/3/2014, 30 marzo 2014
MALATTIE RARE. OPPURE ORFANE?
Quando a Robin S, un bambino australiano di 3 anni, fu fatta diagnosi di sindrome emolitico-uremica (SEU), il giovane medico dell’Ospedale di Brisbane disse ai genitori che si trattava di una "malattia rara". Questi, superando l’immediato sgomento, risposero: «Per noi non è rara per nulla, abbiamo già perso una bambina con la stessa malattia». Questo aneddoto vero illustra un dramma che non di rado si associa a quelle che sono da anni riconosciute ufficialmente come malattie rare (definite dal limite arbitrario di meno di un caso su 2mila persone). In primo luogo, la rarità è statistica: in quella famiglia per sfortuna la SEU aveva colpito entrambi i figli (100%). In secondo luogo, la maggioranza delle malattie rare hanno una base genetica, sono in tutto il mondo ed alcune sono potenzialmente mortali. In terzo luogo, non è raro che sulla propria malattia rara i pazienti e i familiari ne sappiano più di molti medici. Su queste malattie si è tenuto il 25 marzo nella settecentesca Villa Camozzi (Istituto Mario Negri) a Ranica (Bergamo) una riunione internazionale presieduta da Silvio Garattini, Richard Horton e Giuseppe Remuzzi.
Da tempo i malati di malattie rare si sono sentiti trascurati: in molti casi non si conosce un trattamento efficace, ed anche la diagnosi è spesso tardiva; tanto che è stato coniato il sinonimo di malattie orfane. Negli Stati Uniti sin dal 1983, anche grazie all’attivismo di alcune organizzazioni di pazienti, fu promulgata una legge chiamata Orphan Drugs Act (ODA), intesa a scuotere l’inerzia dell’industria farmaceutica, che non vedeva convenienza ad investire in un farmaco che servisse solo a pazienti rari. Uno degli incentivi più attraenti introdotti dall’ODA è stata la concessione dell’esclusività per 10 anni, adottata poi anche in Europa. L’ODA è stato un successo: nel solo periodo 2010-2013 sono stati approvati 85 farmaci orfani. In effetti, almeno per alcune (poche) malattie alcuni farmaci finalmente esistono: ma mentre all’inizio le industrie temevano che investimenti in questo settore fossero votati alla perdita, oggi i farmaci orfani sono, paradossalmente, tra i più dispendiosi del mondo. Un caso limite è l’eculizumab: un anticorpo monoclonale che blocca il complemento, un prodotto raccomandato per il trattamento di due malattie rare: l’emoglobinuria parossistica notturna (EPN), e da poco anche la SEU, quella di cui soffriva il bambino di Brisbane, che ha chiesto di venire a curarsi a Bergamo perché in Australia non riesce ad ottenere il farmaco. Un motivo c’è: il trattamento con eculizumab, che deve essere continuativo con una infusione ogni due settimane, costa circa € 330.000 l’anno.
Secondo i dati del sito Orphanet le malattie rare sono 6.858; anche se 80% dei malati rientra nelle 400 meno rare tra le rare. Una questione che non sempre risulta nelle comunicazioni al pubblico è che queste malattie hanno sì affinità negli aspetti epidemiologici, legislativi e di salute pubblica, ma dal punto di vista scientifico e clinico sono quanto mai disparate. In altre parole, non esiste uno specialista in malattie rare ma sono il neurologo, il nefrologo, l’ematologo, e via dicendo, che devono conoscere, oltre alle malattie più comuni dei rispettivi settori, anche le più rare. Perciò la riunione di Bergamo non pretendeva di affrontare le malattie rare in genere, bensì il problema specifico (e difficile) di come evitare che terapie nuove siano economicamente proibitive; e di come rendere accessibili a tutti le terapie già oggi disponibili. Da questo punto di vista è stato notevole essere riusciti a riunire esperti di settore (malattie metaboliche, renali, del sangue) con economisti, farmaco-economisti, funzionari europei, e il presidente di Orphanet, Ségolène Aymé.
La discussione è stata accesa, perché ad alcuni sembra che le cose vadano abbastanza bene. Ad altri sembra invece che stiamo testimoniando una contrapposizione tra industria farmaceutica privata che continuamente deve convincere i suoi azionisti ed investitori che sta realizzando il massimo del profitto, ed un sistema sanitario pubblico che deve pagare il conto. Per la prima i malati di malattie rare sono un mercato; per il secondo sono cittadini che hanno avuto un po’ di sfortuna in più, ed ai quali a maggior ragione dobbiamo un servizio efficace. La discussione è stata ben gestita dai moderatori, particolarmente da Richard Horton, direttore della prestigiosa rivista The Lancet. È emerso quanto sia necessario conciliare quella contrapposizione, o disinnescare i rischi dello scontro frontale muovendosi con immaginazione. Ad esempio, la gestione delle sperimentazioni cliniche dovrebbe spostarsi sul settore accademico-sanitario; inventare o produrre nuove molecole non solo migliorerebbe il destino dei pazienti ma potrebbe, attraverso la concorrenza, far diminuire i prezzi dei farmaci. Infine, molte della malattie rare su base genetica sono in linea di principio passibili di terapia genica (di cui si è parlato altre volte nel Domenicale): e quando questa ha successo il Paziente è finalmente progredito dalla somministrazione a vita di un farmaco ad una soluzione una tantum definitiva.