Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 30/3/2014, 30 marzo 2014
LA LEADERSHIP DI ERDOGAN E LA DEMOCRAZIA ISLAMICA
Strettamente sorvegliata dalla polizia armata di mitra, che vuole evitare un’altra Gezi Park post-elettorale, la statua di Ataturk in Piazza Taksim ci ricorda che il padre della Turchia moderna passò alla storia del ‘900 per l’abolizione del califfato, la chiusura delle scuole islamiche e delle confraternite.
Moriva così l’Impero ottomano, e nasceva la Turchia laica e secolarista. Il primo ministro Tayyep Erdogan che ha oscurato Twitter, Youtube e forse vorrebbe fare la stessa cosa con Facebook intende entrare nella storia come il leader che ha proiettato la Turchia al 16° posto tra le economie mondiali e riportato i conservatori religiosi al centro della scena. In realtà oggi alle municipali affronta una sorta di referendum sul suo futuro e quello di un Paese della Nato strategico, a cavallo fra Europa e Medio Oriente, fondamentale per il passaggio delle grandi reti energetiche e commerciali euroasiatiche.
La Turchia, se va fuori controllo o si fa coinvolgere nel conflitto siriano, potrebbe essere il prossimo problema dell’Europa. Con il processo di adesione alla Ue congelato - non è più neppure un tema elettorale - la Turchia di Erdogan sembra avere imboccato una deriva ossessiva che vede complotti e traditori ovunque: «Ma la Turchia non è circondata da nemici», ammonisce una lettera aperta degli intellettuali firmata anche dal Nobel Orhan Pamuk.
Dopo oltre un decennio di stabilità, riforme e crescita quasi cinese (in media il 5% l’anno), da un anno la Turchia è travolta da proteste e scandali: il carismatico Erdogan sembra al tramonto, anche se è ancora favorito dai sondaggi. Ma una vittoria risicata o con percentuali inferiori al passato si trasformerebbe in una sconfitta delle sue smisurate ambizioni di leader e forse in una nuova ondata di instabilità.
La campagna elettorale, dove si contende il potere in città chiave come Istanbul e Ankara, è stata esasperata, velenosa e combattuta ad armi impari: il 90% dello spazio televisivo pubblico è stato usato dal partito Akp e quindi si capisce che i social network imbavagliati dal leader siano stati, per l’opposizione del partito repubblicano Chp e della destra dei Lupi Grigli (Mhp), i canali alternativi dell’informazione diffondendo intercettazioni sulla corruzione della sua famiglia e dell’Akp.
Ma questa non è una partita che si limita alla leadership di Erdogan: agita anche il mondo musulmano e investe il concetto di democrazia islamica, la cui versione moderata, indicata come un modello dopo le rivolte arabe del 2011, è stata scossa dall’autoritarismo del premier che per difendersi dagli scandali ha licenziato 6mila poliziotti, esautorato centinaia di giudici e messo la museruola agli altri poteri dello stato. Pesa così in maniera forse determinante il fattore Fetullah Gulen, l’Imam in auto-esilio in Usa che guida il movimento religioso Hikmet (Servizio): da alleato del premier contro i militari, Gulen è diventato negli ultimi anni la sua bestia nera. «Se Putin non avesse annesso la Crimea, le prime pagine dei giornali internazionali sarebbero dedicate alle malefatte di Erdogan», sottolinea un imprenditore legato a Gulen.
Le travolgenti vittorie elettorali - fino al 49,7% dei voti alle politiche 2011 - sono state interpretate da Erdogan come un via libera alla sua interpretazione della democrazia: chi vince pigliatutto. Ma in Turchia è cresciuta anche la società civile che non è più convinta della versione del “sultano” Erdogan. Vincere alle urne non basta più per dire ai turchi: siamo democratici.