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 2014  marzo 30 Domenica calendario

«I 2,3 MILIONI DI VOTI ALL’ESAME DELL’OSCE. ALFANO PUÒ VERIFICARLI, PERÒ MONITORATO DA ONU O UE: DELL’ITALIA NON MI FIDO. FRIULI, LOMBARDIA, SICILIA E PARTITO SARDO D’AZIONE VOGLIONO IMITARCI»


Quando vedrà la testatina di questa pagina, Tipi italiani, Gianluca Busato avrà un mancamento. Dichiarata nove giorni fa l’indipendenza del Veneto, the plebiscite’s man, ovvero l’òmo del plebisìto, ha già provveduto a nominare il suo rappresentante nel Regno Unito, in sostituzione del compianto Giuseppe Giacomazzi, che fu l’ultimo ambasciatore della Serenissima a Londra. Si tratta di Giovanni Della Valle, originario di Bassano del Grappa, residente nel Kent, dov’è direttore sanitario di una clinica. Il quale, tuttavia, avrà vita meno facile dei predecessori - Daniele Barbaro, Sebastian Giustinian, Alvise Contarini, Piero Mocenigo, solo per citarne alcuni fra Cinquecento e Seicento - che erano in grado di farsi ben comprendere nel loro idioma alla corte britannica, essendo all’epoca il veneziano la lingua ufficiale della diplomazia e dei commerci.
Assai difficile che con Elisabetta II e David Cameron si possa tornare a quegli standard nelle relazioni fra Repubblica veneta e Gran Bretagna. Tuttavia l’unico giornale che finora ha cercato Busato per un’intervista è stato The Times. «Gli italiani? Lù xe el primo che vien qua a trovarme. Neanche Il Gazzettino mi ha chiesto un colloquio approfondito». Per la verità, giovedì scorso Busato era invitato a Unomattina, su Rai 1. Ma quando gli hanno spiegato che lo studio tv si trova nella capitale d’Italia, si è sottratto: «A Roma non ci vengo, al massimo possiamo usare Skype o fare un collegamento da Venezia, ho risposto. Mi hanno spiegato che a quell’ora non era fattibile per ragioni tecniche. Ma come? Palazzo Labia, sede della Rai sul Canal Grande, è grande quanto il Palazzo Ducale e dentro non c’è manco un cameraman che cominci a lavorare alle 7 di mattina?».
La verità è che Busato, ideatore e promotore del sito Plebiscito.eu e dell’omonima associazione che ha sancito a larga maggioranza la secessione telematica del Veneto dall’Italia con 2.102.969 sì (89,1%) e 257.266 no (10,9%), non ha affatto bisogno di pubblicità in patria (patria si fa per dire). «Quindi, quando il Corriere della Sera nel titolo scrive, per paura o per ipocrisia, “plebiscito” fra virgolette, ch’el vaga in mona: mi me ne ciavo. Ci penseranno i lettori veneti a regolare i conti». È al mondo che guarda Busato. «Ho registrato il sito all’Ocse, che mi ha dato lo status di giornalista senza dover passare dal vostro Ordine. Invio i comunicati in inglese a 2.000 fra testate e corrispondenti esteri. Questo è di stamattina: il Wirtschafts Blatt di Vienna, cioè Il Sole 24 Ore degli austriaci. Un’intera pagina. Imprenditori e finanzieri sono molto contenti perché ho annunciato che il Veneto collaborerà con loro».
Busato, detto Giane, è nato, vive e lavora a Treviso. Compirà 45 anni il 14 maggio. È separato dalla moglie, «anche per colpa delle spese folli affrontate in quest’avventura del referendum: mi sono mangiato due case». Il padre Luigi, pensionato, guidava i bus a Mestre; la madre Liliana fa la casalinga. Nel 1999 s’è laureato in ingegneria elettronica a Padova. A dispetto della missione che s’è dato, «digitalizzare il mondo», è un utopista con i piedi ben piantati per terra. Ma fino a un certo punto: la sede di Digitnut, la sua azienda, due stanze in tutto, è costruita sulla Piavesella e fa una certa impressione vedere questo corso d’acqua che gorgoglia e spumeggia impetuoso sotto le piastrelle trasparenti del pavimento. «La location rappresenta bene Plebiscito.eu: siamo un fiume carsico che scavava da anni sotto terra e all’improvviso è affiorato». Digitnut significa nocciolina digitale. Ci lavorano in tre. Le dimensioni del fatturato rispettano quelle dei bagigi: 300.000 euro l’anno. «Stipendio netto di 2.200 al mese. Se tutto va bene. La paga non è garantita». Il trio crea applicazioni per Iphone e piattaforme per concorsi a premi, fidelity card, ticketing elettronico. Tra i clienti figurano Seat Pagine Gialle e un primario gruppo energetico nazionale che non si può citare. Con due architetti del software, il suo socio Alessandro Giacomella e Paolo Agostinetto, Busato ha creato il sistema per il referendum.
Fuori le prove che i voti sono stati veramente espressi.
(Accende i monitor di alcuni Mac: iniziano a scorrere senza sosta selve di codici, nomi, località, numeri di documenti d’identità, indirizzi mail, date, orari). «Ecco qui. Sembra Matrix, vero? Caratteri verdi su fondo nero, come nei vecchi terminali. Tutto custodito su server allocati in Svizzera, Irlanda e Stati Uniti, abilitati al disaster recovery, il salvataggio in caso di guasti. Non mi fido dell’Italia».
Chi mi assicura che i dati siano veri?
«Li sta esaminando un comitato di 11 osservatori internazionali presieduto da Beglar Davit Tavartkiladze, già ambasciatore della Georgia in Italia, perito del tribunale di Roma e amico del presidente Eduard Shevardnadze, che fu il ministro degli Esteri di Mikhail Gorbaciov. Costoro, fra l’altro, interpellano votanti a campione. Ho contattato l’Osce, l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione in Europa. Ha dato la disponibilità per un’analisi super partes».
E se invece volesse controllarli il ministro dell’Interno?
«Ce lo chieda. Ma durante la verifica sarà monitorato dalla Ue, dall’Onu o dall’Osce. Non ripongo alcuna fiducia in Angelino Alfano: è parte in causa».
Hanno votato in 2.360.235? Giuri.
«Lo giuro su San Marco».
Poteva affidarsi a un pool di notai.
«Notai veneti? Cioè notai della Repubblica italiana? Gente che ha giurato fedeltà alla Costituzione? E poi che cosa facevano? Si dimettevano in massa? Non potevano di sicuro certificare la vittoria dei sì, la secessione del Veneto dall’Italia».
Come ha fatto a evitare brogli?
«Nei sei giorni del plebiscito, le operazioni di voto sul Web duravano dalle 9 alle 22, il venerdì fino alle 18. Ogni notte i sì e i no venivano confrontati in automatico, grazie a 180 programmi di analisi incrociata, con le liste elettorali anagrafiche di tutti i Comuni del Veneto. In tal modo sono stati scoperti e cancellati 6.815 elettori fasulli, corrispondenti allo 0,29% dei votanti. Ma per tranquillizzare i ballisti del Corriere e dell’Espresso abbiamo proceduto a un’ulteriore verifica, ben più complessa, basata su algoritmi».
Vediamo se riesco a capirla.
«Dal 1° al 15 marzo, chi era intenzionato a votare poteva registrarsi sul sito www.plebiscito.eu. Hanno dato l’adesione circa 500.000 potenziali elettori. Autentici. Ora, ammettiamo che lei si fosse appropriato dell’identità di un vicino di casa e avesse votato al posto suo, dandoci un indirizzo e-mail inventato sul momento. Sicuramente ci avrebbe fatto fessi. Ma se fosse stato un imbroglione seriale, prima o poi sarebbe incappato in uno dei 500.000 nominativi già registrati e l’avremmo smascherata. Senza contare che non era facile per nessuno carpire anche il numero della carta d’identità».
In che modo è riuscito a procurarsi gli elenchi elettorali aggiornati?
«Sfruttando, come comitato referendario, la stessa legge usata dai partiti. E pagando. Il Comune di Padova governato dal Pd, il più esoso, ha preteso 900 euro. Idem Venezia: 460. Castelfranco 82, Verona solo 5. Altri municipi, per esempio Conegliano, ce li hanno forniti gratis».
Possibile che alle 18 del 17 marzo si fossero già espressi 700.837 cittadini, diventati nel giro di 53 ore 1.993.780? Vuol dire 24.395 votanti all’ora, pari a 406 al minuto. Un’enormità, considerato il silenzio generale che ha avvolto il referendum.
«Durante il plebiscito il sito ha registrato 2 milioni di utenti unici al giorno. Inoltre abbiamo allestito 40 seggi nei Comuni più importanti e 260 gazebo per strada, dove si votava sempre con il computer».
Ma non ha pubblicato sul sito le ragioni del no, come aveva annunciato.
«Piero Piccinetti, organizzatore dei Dialoghi asolani tra Gianfranco Fini e Massimo D’Alema, me le aveva promesse ma poi non me le ha mai inviate. Si vede che ci crede poco lui per primo».
Però Marcello Veneziani sul Giornale gliene ha offerte a bizzeffe di ragioni per non dividere l’Italia.
«Bel cognome. Ma come fasso? La parola del popolo par mi xe léje (legge, ndr)».
Roberto Ferrucci, scrittore veneziano, vi deride per la scelta dell’estensione «eu», cioè l’«odiata Europa».
«Ostrega, che argomento! Venezia, la nostra capitale, si trova in Europa o no? Comunque, piuttosto del suffisso “it”...».
Dice Ferrucci che a urlare «indipendenza» sono «imprenditori senza scrupoli o impreparati» e «politici sgrammaticati nel linguaggio e nella vita». Lei è imprenditore e politico.
«Il nostro tasso di civismo è assai elevato. Siamo terz’ultimi nella classifica dell’evasione fiscale, con il 14%, contro il 13,5% dell’Emilia Romagna e il 10,5% della Lombardia, mentre in Calabria il 32% non paga le tasse. Il Veneto è al primo posto in Italia per l’integrazione degli immigrati, per il volontariato, per la raccolta differenziata dei rifiuti. Questa è la mia grammatica».
A nessuno dei veneti che conosco è arrivato a casa il codice per votare.
«Pur contando su 15.000 volontari, non siamo riusciti a coprire tutti i Comuni. Mi obietterà: poteva inviare i codici per posta. Ok, poi però il conto da 1,2 milioni di euro per le spese di spedizione lo saldava lei?».
Quant’è costato il plebiscito?
«Sul milione e mezzo di euro».
E chi paga?
«Noi volontari. Ci siamo autotassati. Ma possiamo contare anche su 300 imprenditori, riuniti nell’associazione Veneto business, gemellata con Business for Scotland dei nostri amici John Riley e Ian Renwick, parlamentari di Edimburgo. Abbiamo ricevuto donazioni: dai 1.500 euro di Fabio Padovan, leader del venetismo, ai 10.000 di Angelo De Marchi, titolare di un’autofficina qui a Treviso».
Padovan mi ha raccontato che, dopo la proclamazione dell’indipendenza, sabato 22 il casello autostradale di Conegliano era presidiato da pattuglie della Guardia di finanza con i mitra spianati. «Non li avevo mai visti armati in quel modo», ha detto.
«Un segnale alle partite Iva. I xe terorizài. Tutto lo Stato dei nullafacenti è atterrito. È la volta che gli tocca lavorare».
Quali altre reazioni ha registrato?
«Un enorme interesse dei media stranieri, speculare alla censura di quelli italiani. Si sono occupati di noi Independent, Financial Times, Daily Telegraph, Daily Mail, Daily Express, Sunday Express, Abc, Wiener Zeitung, Scotsman, Australian, New Zealand Herald, Cnn, Nbc, Al Jazeera, Russia 24, Russia Today. E poi la Bbc inglese, la Zdf tedesca, l’agenzia russa Novosti. Ntv, la televisione del colosso Gazprom che raggiunge 100 milioni di spettatori, mi ha intervistato a Venezia. Sono arrivati 25 carabinieri in tenuta antisommossa, che hanno schedato le due inviate dell’emittente di Mosca, Alla Demidova e Olga Kameneva».
Schedate perché?
«Durante le riprese c’era chi sventolava il gonfalone veneto. Deve sapere che una delibera comunale, approvata dopo l’assalto al campanile del 9 maggio 1997, vieta in piazza San Marco l’esposizione del vessillo della Serenissima. I militari, protetti da giubbetti antiproiettile, hanno rifiutato i passaporti delle giornaliste in quanto scritti in cirillico».
I delitti contro la personalità dello Stato contemplano l’ergastolo.
«Solo per gli atti violenti. La legge 85 del 2006 ha riformato il codice penale in materia di reati d’opinione. Per avviare le procedure di ammissione della Turchia nella Ue, Bruxelles ha ingiunto al governo di Ankara di abrogare i 15 anni di reclusione previsti per coloro che reclamano l’indipendenza, come i curdi. Al che i turchi si sono difesi, dicendo: e l’Italia, allora, che commina l’ergastolo? Così anche Roma è stata costretta a darsi una regolata. Lo Stato italiano è un mostro di derivazione giacobino-hegeliana che ancora si protegge con il codice Rocco, fascista. Mi dica lei se uno Stato può avere personalità. Ho subìto due processi per le mie opinioni. Vinti entrambi».
Come nasce l’idea del plebiscito?
«Ero in Olanda per una vacanza in bicicletta. Mi faceva da guida un giovane diplomatico, che oggi è ambasciatore in un Paese africano. Mi chiese a bruciapelo: “Ma voi italiani non vi vergognate di obbedire a uno Stato imbelle che tollera la mafia, i furti, gli sprechi?”. Risposi: e tu perché obbedisci? “Per la regina”. Mi vergognai e pensai: devo fare qualcosa».
E che fece?
«Chiesi a vari intellettuali di aiutarmi a rendere il Veneto indipendente. I primi a rispondere furono i professori universitari Lodovico Pizzati, originario di Valdagno, che ha lavorato per otto anni alla Banca mondiale e oggi è docente alla California State University, e Paolo Bernardini, direttore a Padova della Boston University per studenti americani».
E poi?
«Un gruppo di appassionati della Repubblica veneta mi ha chiesto uno studio su come organizzare uno Stato moderno che funzionasse attraverso Internet, qualcosa da concretizzare, secondo loro, nel 2020 o nel 2030. Il 10 ottobre scorso, tornando a casa di notte dopo avergli presentato a Vicenza la piattaforma per il plebiscito digitale, mi sono dato una botta in fronte: ma perché non farlo subito? A casa ho contattato Pizzati in chat. Grazie al fuso orario, era sveglio. Il mio messaggio, inviato alle 3.20, diceva: “Forse gó catà ’na solusion par far strike”. Ha aderito entusiasta. E siamo partiti».
Ora che ha proclamato l’indipendenza, quali saranno i passi successivi?
«Inizia la fase costituente con i 10 delegati più votati, tutti incensurati. Le candidature erano libere. Avevo chiesto ai partiti: iscrivete i vostri delegati. Ma loro, supponenti, pensavano che fosse una cazzata».
Be’, avrebbe potuto rivelarsi un flop.
«No, perché avevo commissionato due sondaggi ridotti, in tutto 5.000 euro di spesa, alla Mps di Bergamo. Il primo a gennaio 2012: attestava che il 53,3% avrebbe votato sì all’indipendenza. Il secondo a dicembre 2012: la percentuale era salita al 56,7. Con il raddoppio, dal 13% al 26%, fra gli elettori di centrosinistra. Mi sono detto: qua devo spendere. Ho arruolato Roberto Weber, ex direttore scientifico della sinistrorsa Swg di Trieste, ora alla Ixè, che il 2 e 3 febbraio scorsi ha testato un campione di 1.200 cittadini. Risultato: il 73% avrebbe votato e il 64,4 si sarebbe espresso per il sì. Mi è costato 9.000 euro, ma ne è valsa la pena».
E ora si ripromette di togliere 21 miliardi di tasse venete allo Stato.
«Non è esatto: di riappropriarci dei nostri soldi, come i coloni della costa atlantica del Nord America che il 16 dicembre 1773 buttarono in acqua le casse di tè per protestare contro l’iniqua tassazione imposta dai britannici. Una protesta che tre anni dopo portò alla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti».
In pratica?
«Non verseremo le tasse. Basta essere in tanti. Il popolo non lo ferma nessuno».
Quale sarebbe l’imposizione fiscale nella nascente Repubblica veneta?
«Una tassa unica: 20% sui redditi delle persone fisiche e delle imprese. Esenzione totale sotto i 15.000 euro annui. Pensioni minime a 1.000 euro».
Il Bengodi.
«Se i nostri soldi rimangono qua, si può fare. I calcoli sono di Pizzati, che all’Università della California insegna statistica economica».
Neppure un euro alle regioni d’Italia svantaggiate?
«Allora non ha capito. Noi non rifaremo una piccola Italia, bensì uno Stato indipendente e sovrano. Ha presente la Svizzera? Uguale. Con le magnifiche comunità al posto dei cantoni: Venezia, Verona, Belluno, Feltre, Legnago... Anche Bergamo, Brescia, Udine... Dall’Adda all’Isonzo. Decidano loro».
E secondo lei Roma se ne starà con le mani in mano a guardare?
«Con la legge 881 del 1977 l’Italia ha ratificato il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali adottato dall’Onu nel 1966, che all’articolo 1 sancisce: “Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”. Che fa? Non lo rispetta?».
Il governatore Luca Zaia assicura che la Regione Veneto nel 2015 indirà un referendum consultivo vero.
«Faccia pure. Il nostro è già un plebiscito dispositivo, secondo le leggi internazionali. Zaia dovrebbe ricordare che c’è voluto uno sciopero della fame di Anna Durigon, architetto di Zero Branco, e Maurizio Giomo, ingegnere di Treviso, prima che il Consiglio regionale si svegliasse».
L’ex governatore Giancarlo Galan sostiene che il vostro plebiscito è stato «un insulto», non una cosa seria.
«Dovrebbe accordarsi con sé stesso. Il 17 settembre 2013 scrisse su Twitter: “Il Consiglio regionale veneto voti senza timori la legge per l’indipendenza! Un po’ di coraggio, non ci si fermi alla prima difficoltà!”. I giornali di Carlo De Benedetti sminuirono: “Fa dell’ironia”. Galan è persona seria a fasi alterne. E un po’ dissociata: al Corriere del Veneto ha dichiarato che fino alle 16 di venerdì 21 marzo è rimasto “davanti al computer con la pagina di Plebiscito.eu aperta: ero tentato, lo ammetto, il sì mi ammaliava”».
Secondo Galan, puntate solo a farvi un partito in vista delle europee.
«Mi piace farlo rodere. Non rispondo».
Con il record di 135.306 preferenze, lei è il maggior indiziato: si candida?
«Lo dise zente che vendarìa so’ mama par ’na carega. Almanco che i tasa».
Si accorderebbe con Beppe Grillo?
«Con chiunque voglia l’indipendenza».
E con la Lega?
«Arriva tardi. Vorrebbe sfruttare il nostro successo per continuare a trescare con Roma. Infatti Zaia, lestissimo, è corso nella capitale d’Italia a tenere una conferenza stampa sul plebiscito».
Ma lei non militava nella Lega?
«Dal 1994 al 1997. Avevo vinto le primarie interne a Treviso contro Mauro Michelon. Il verdetto fu cancellato per “insufficiente militanza”: secondo loro ero nel movimento da troppo poco tempo. Dopo sei mesi l’allora segretario regionale Fabrizio Comencini mi espulse con un decreto che mi vietava l’ingresso in tutte le sezioni. È lo stesso Comencini che, a referendum concluso, s’è complimentato inviandomi un Sms al miele».
Ha sempre votato Lega?
«Ho cominciato con il Pli. Poi ho scelto il Partito radicale. Infine la Lega. Mai la Dc. Dopo l’espulsione appendevo manifesti murali con una ghigliottina che tranciava uno scranno e lo slogan “Mi no’ voto. Mi tajo careghe”. Degli amici di un tempo salvo solo Franco Rocchetta, fondatore della Liga veneta».
Chi altro c’è fra i suoi referenti?
«Marco Bassani, che fu collaboratore di Gianfranco Miglio, e Alessandro Vitale, entrambi docenti nel dipartimento di studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università di Milano. Non scriva “della Statale”, mi raccomando: si offendono. E persino un sindaco del Pd, quello di Silea, Silvano Piazza».
Perché i politici del Veneto sovrano dovrebbero essere migliori di quelli italiani? Sempre uomini sono.
«Li conosco tutti, uno per uno. È gente temprata da anni di idealismo purissimo. Ci metto la mano sul fuoco. E poi un conto è un tasso fisiologico di corruzione e un conto è la disonestà endemica, metastatica che c’è in Italia. Colleghi imprenditori mi assicurano che per ogni commessa pubblica i politici hanno un listino: 10% a Tizio, 5% a Caio, 2% a Sempronio. Se non lo applichi, non lavori».
Quale sarà la bandiera del Veneto?
«Il gonfalone di San Marco, ovvio».
All’inno ci avete pensato?
«Il coro iniziale del Juditha triumphans di Antonio Vivaldi, che celebra la vittoria di Venezia sui turchi a Corfù».
Tornerà il doge?
«Questione prematura. Deciderà la costituente. Comunque, secondo lo studio di due matematici, l’elezione del doge era un sistema che assicurava la massima copertura democratica. Il ballottaggio veneto, da cui deriva il termine inglese ballot, è una soluzione ancora valida».
Chi scriverà le leggi?
«Il potere è dell’assemblea legislativa. Avremo l’istituto della democrazia diretta, come in Svizzera, con referendum dispositivi su tutto, tasse incluse».
E i codici?
«I giuristi. Stiamo predisponendo un libro bianco con il contributo di 160 esperti suddivisi in 16 aree, che forniranno una proposta completa per il funzionamento della Repubblica veneta».
Che moneta vi darete?
«Lo hanno già deciso i cittadini nel referendum del 16-21 marzo. C’era un quesito aggiuntivo sull’euro: il 51% s’è dichiarato favorevole».
Come farete con polizia, carabinieri, esercito?
«Basta cambiargli la divisa. Chi vuole restare, è il benvenuto».
E con il personale dell’Agenzia delle entrate?
«Non ha futuro. Salveremo solo le professionalità migliori, non certo l’architettura del peggior inferno fiscale che esista al mondo».
Vi prenderete gli immobili statali con la forza?
«Qui siamo alle trattative patrimoniali. Ci saranno stime e arbitrati internazionali. Quello che è in Veneto è del Veneto.
Ci basta».
Senza le vostre tasse, l’Italia fallirà.
«No, rifiorirà, perché dovrà responsabilizzarsi. Venezia avrà sul Belpaese la stessa funzione di Angela Merkel».
E quando le Ferrovie dello Stato vi toglieranno i treni?
«Riapriremo la Fervet di Castelfranco Veneto, che ha costruito le migliori carrozze del mondo prima che Trenitalia la facesse fallire».
Verrete isolati dalla comunità internazionale.
«Era il 12 maggio 1784 quando John Adams, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, padri fondatori degli Stati Uniti, chiesero per iscritto alla Serenissima, attraverso l’ambasciatore Daniele Andrea Dolfin, “un trattato di amicizia e di commercio”. Il Senato veneto si prese il lusso di rispondere nove mesi dopo, il 19 febbraio 1785, rifiutando persino l’avvio di una trattativa. Era il mondo che dipendeva da Venezia, non Venezia dal mondo».
Pensa che il vostro plebiscito sia replicabile altrove?
«Altroché. Il 5 aprile sarò a Cagliari, su invito di Giacomo Sanna, presidente dello storico Partito sardo d’azione. Vogliono fare come noi. In tre mesi potrebbero essere in grado di allestire il referendum. Si stanno organizzando ovunque comitati come il nostro. Ho già ricevuto richieste da Friuli, Lombardia e Sicilia per mettere a disposizione la piattaforma digitale. Una anche dalla Napolitania, si sono presentati così: simpatici».
Ha mai avuto minacce?
«No. Solo alcune auto di nostri militanti danneggiate a Montecchia di Crosara. E un seggio distrutto a Onara. Del resto questa frazione del Comune di Tombolo fu la terra d’origine della stirpe di Ezzelino III da Romano, soprannominato il Feroce o il Terribile».
Roma per il momento tace. Ma non ve la farà passare liscia.
«Questo Stato è diventato il regno del male e dei suicidi. Non può capirci. Noi siamo a un livello evolutivo superiore, politicamente parlando. Abbiamo un consenso popolare da far paura, sappiamo gestire le nuove tecnologie, usiamo la comunicazione globale. L’Homo sapiens sapiens non ha avuto bisogno di fare guerre: quello di Neandertal s’è estinto per conto suo. L’unica cosa che potevano fare i burosauri di Roma era ignorarci. Ci sono riusciti per decenni. Adesso devono soltanto arrendersi e andarsene».
Mi pare che la stia mettendo giù un po’ troppo facile.
«Se lei va alla National Gallery di Londra, trova la mostra permanente di Tiziano nella prima sala, Canaletto in quella di destra, Paolo Veronese in quella di sinistra, e nelle didascalie dei loro capolavori legge venetian painters, pittori veneziani, non italian painters. Roma usurpa e infanga un brand, Italia, che non le appartiene. Indro Montanelli scrisse che lo Stato era morto e che mancava solo il becchino per seppellirlo. Eccolo qua: sono io l’affossatore».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.