Antonio Gnoli, la Repubblica 30/3/2014, 30 marzo 2014
PAOLO RICCA – “CHI NON HA FEDE DUBITA DI DIO CHI CREDE DUBITA DI SE STESSO”
I VALDESI, in fuga dalla Francia, giunsero nella Val Pellice intorno al 1200. E lì — grosso modo tra Cuneo e Torino — per secoli vissero rinchiusi come in un ghetto. Perseguitati e oppressi. Vado a trovare il teologo Paolo Ricca con qualche vaga nozione di storia. Abita nel rione Prati di Roma, a poche decine di metri dalla Chiesa valdese, di cui è stato un importante ministro. Da poco ho finito di leggere il suo libro più recente dedicato all’Ultima Cena, quella che Gesù tenne con gli Apostoli. Mi colpisce la dedica: «Ai medici che mi hanno curato in questi ultimi anni». Anni non facili per Ricca: «La malattia è un vortice che ti risucchia. Tende ad annullarti. Credevo di non farcela e di non essere all’altezza di quella serenità che una professione di fede ti trasmette. Ricordo di aver pensato: è tutto molto grave. Come andrà a finire? Non riuscivo a capirlo. Poi il lento riemergere e il tornare alla vita normale». Anche Gesù, in quell’Ultima Cena, penso, torna alla vita e mai come in quell’evento il corpo e lo spirito si sono intimamente mescolati. Ma al tempo stesso divisi nelle interpretazioni che il cristianesimo darà di quell’episodio.
Professore chi ha “pagato” il conto di quella Cena?
«Non è stata una cena al ristorante. Però il conto lo abbiamo pagato un po’ tutti. Nel senso che quell’evento ha diviso i cristiani. Mentre il pane e il vino di Gesù avrebbero dovuto unire».
È il destino lacerato del cristianesimo di cui i valdesi fanno parte.
«La loro è una storia frastagliata. Nel Cinquecento aderirono alla riforma protestante. Calvino diede loro la confessione di fede, ma continuarono le persecuzioni. Nel 1848 la comunità ottenne i diritti civili. Solo dopo il Concilio Vaticano II i valdesi furono considerati alla stregua delle altre confessioni».
Lei è valdese da quando?
«Da sempre. Sono nato a Torre Pellice che è il centro del movimento valdese. La mia famiglia vi arrivò nel 1600. Si stabilì nelle valli: luoghi spesso inaccessibili, resi ospitali dal duro lavoro».
Un famiglia dunque contadina.
«Mio nonno, a un certo punto, emigrò a Nizza e lavorò come portiere d’albergo. Riuscì a far studiare mio padre da pastore. Mia madre, in origine cattolica, si convertì e condivise con il marito il ministero».
Cosa vuol dire essere un pastore?
«Cercare davanti alla tua comunità, che spesso è fatta di poche o tante persone, di assolvere l’insegnamento e la predicazione».
Concretamente?
«Aiutare con rettitudine a vivere le vite degli altri. Affrontarne, con lo stessa coerenza, le gioie e i terrori, i conflitti e le speranze. Vittorio Subilia, grande teologo e mio professore, provava una certa allergia sentendo pronunciare la parola ”pastore”. La considerava eccessiva. Carica di un compito sovrumano».
È così?
«È un mestiere difficilissimo, che ho esercitato per anni prima di diventare professore di teologia».
Dove lo ha svolto?
«Dal 1962 al 1965 sono stato pastore in una piccola comunità, a Forano Sabino, non lontano da Rieti. A quel tempo venni incaricato di seguire i lavori del Concilio Vaticano II e scrivere un commento teologico. Poi, per circa un decennio, sono stato pastore a Torino. Erano gli anni della contestazione. La gente disertava la chiesa. Mi chiedevo spesso se stessi facendo bene il mio lavoro. Trovavo difficile l’accordo tra le mie parole e quelle dell’Evangelo».
Stava mettendo in discussione la sua fede?
«Non dubitavo della fede ma di me stesso. Del fatto di non essere così sicuro di farcela».
Da dove nasce la fede?
«Non nasce dalla paura della morte né dall’incertezza del futuro. La fede è un viaggio che non si conclude nell’arco di una vita. Quando inizia la fede comincia anche l’inquietudine. La fede rende inquieti ma non dubbiosi ».
Che differenza c’è?
«Il dubbio è un interrogativo rivolto a Dio. L’inquietudine è dubitare di se stessi, di ciò che si sta facendo, di quale società si intenda costruire, quale eredità lasciare ai propri figli. Da questo punto di vista, Dio diventa certezza. E non si sa perché».
Dio chiama, misteriosamente, come sperimenta Abramo.
«E lui non può che rispondere. Perché la chiamata di Dio è più forte di tutte le obiezioni possibili».
Ammetterà che il comportamento di Abramo può essere visto come un caso di psichiatria.
«Non lo nego. In fondo, non c’è nessuna evidenza di Dio e quindi il suo agire può effettivamente essere scambiato non solo per quello di un folle, ma addirittura come qualcosa di diabolico».
La non evidenza di Dio cosa comporta?
«Che la fede è un salto. Ma non nel buio. Bensì nella parola che vince perché convince».
Siate astuti come serpenti e puri come colombe, mi pare dica Gesù. Non trova che i due piani confliggano?
«Astuzia nel senso di un’esortazione al credente a essere intelligente. Mentre la purezza è non pensare male dell’altro».
Può la fede essere inutile?
«Non è detto che se non ci fosse la fede il mondo sarebbe peggiore. Ma neanche migliore. Gesù ha invitato i suoi discepoli a essere servitori inutili. Quindi anche la fede può essere inutile. Ma Dio non è inutile, la fede in lui, sì, può esserla».
Non capisco la differenza.
«Con la mia fede, più o meno vacillante, posso non servire a nulla. È irrilevante ciò che potrei fare. Ma Dio è l’altra possibilità. È l’altro mondo per questo mondo. L’altra umanità per questa umanità. È necessario che non identifichi il mondo, e l’altro, con me stesso. Che non faccia di ciò che mi circonda la proiezione del mio Io, come fossi un piccolo Dio. Dio è utile perché è l’altro da me».
Erano le posizioni del teologo Karl Barth.
«Nella prima fase del suo pensiero effettivamente Barth sostenne che l’Altro è Dio e non è uomo. Poi, negli anni in cui lo conobbi, attenuò questa tesi».
Lo ha conosciuto dove?
«Seguii le sue lezioni a Basilea negli anni Cinquanta. Barth, nonostante la grandezza dei suoi studi, fu un uomo profondamente umile. Dotato di un’autoironia e una coscienza alla Lettera ai romani è pura dinamite».
Parlando di grandi teologi protestanti non si può non fare anche il nome di Dietrich Bonhoeffer.
«Bonhoeffer fu un luterano, mentre Barth era vicino a Calvino e Zwingli. Entrambi però antihitleriani convinti».
Ci fu una compromissione dei protestanti con il regime nazista?
«La Chiesa evangelica, in buona parte, si nazificò. E fu contro l’obbedienza alle direttive del regime che, nel 1934 durante il sinodo di Barmen, nacque una Chiesa confessante che in larga parte si oppose prima ai cristiani tedeschi e successivamente alla Germania hitleriana. Fu Karl Barth a prendere posizione contro il nazismo, e questo provocò il suo allontanamento dall’università di Gottinga e il rientro in Svizzera».
E Bonhoeffer?
«Cospirò contro il regime partecipando all’attentato del 20 luglio del 1944. La bomba scoppiò ma Hitler ne uscì quasi incolume. Bonhoeffer fu arrestato e impiccato l’anno dopo».
Era giusto che un teologo, un pastore, condividesse un gesto di così estrema violenza?
«Bonhoeffer non ha mai rivendicato un modello di comportamento. Ha solo applicato il detto luterano: pecca fortemente ma ancora più fortemente gioisci in Cristo. Fu un grande profeta del cristianesimo di domani che interpretò come un impegno per gli altri. Il suo insegnamento fu per me di grande aiuto. Ho compreso cosa significhi la pienezza della fede in un mondo secolarizzato».
Sono parole molto belle: la parola che vince perché convince, ha detto più sopra. Ma oltre la parola cosa c’è? Con quale gesto, decisione, contenuto la riempie?
«Fin dall’inizio del mio ministero è stato il lavoro per la pace a coinvolgermi. Ossia la predicazione della non violenza come impegno sociale e culturale».
Mi scusi, ma siamo ancora sul piano della parole.
«Le racconto una piccola storia. Conobbi anni fa e in modo del tutto casuale un monaco buddista. Era partito in pellegrinaggio da Auschwitz e per raggiungere Hiroshima. Viaggiava solo. Lo vidi nella piazza San Pietro. Seduto in terra. Batteva il tamburo e cantava le sue litanie. Le guardie lo allontanarono. Il monaco si spostò oltre il colonnato. Ma anche lì gli venne ingiunto di andarsene. Infastidiva i fedeli, dissero le guardie».
E cosa accadde?
«Mi avvicinai e gli dissi che se avesse voluto avrebbe potuto recitare le sue preghiere davanti alla nostra chiesa valdese, e che lì nessuno lo avrebbe disturbato. Poi gli chiesi dove avrebbe dormito. Mi rispose che la strada era il suo giaciglio. Lo invitai a casa. Si alzava tutte le mattine alle sei e scendeva in strada per le sue litanie. Quasi tutto il tempo digiunò. Solo alla fine riprese a mangiare e a bere. E un giorno mi annunciò la partenza. Ci inchinammo in silenzio. E officiammo insieme, nella chiesa, un culto per la pace».
Era un uomo profondamente religioso.
«Era un uomo giusto. Chiesi dove era diretto. Mi rispose sul Monte Sinai. Disse che da Bari avrebbe preso un traghetto per Patrasso. Gli domandai se lì c’era qualcuno che lo aspettava. Sì, concluse, c’è Dio che mi aspetta. Per un breve momento ho avuto la benedizione di affiancare quel monaco di cui nessuno sapeva nulla e a nessuno interessava. Fu una lezione straordinaria».
È una storia bella che le invidio. Ma al tempo stesso penso che occorra una grandissima fede per credere che Dio fosse lì ad attenderlo. Quante volte è stato detto: Dio non c’era o dov’era quando accadeva qualcosa di terribile. Dov’era Dio quando Auschwitz esplose in tutta la sua efferata tragedia?
«Dio non è responsabile dell’accaduto e nessuno può impedirgli di essere libero».
È vero. Ma se Dio c’è e tace, è il suo silenzio che interroghiamo e che ci opprime.
«Quel silenzio a volte l’ho subito e ripenso all’esperienza di Giobbe, segnata prima dal silenzio di Dio, e dagli amici di Giobbe che, insopportabilmente, lo giustificano. Poi, quando Dio parla, non risponde alla domanda di Giobbe: perché colpisci un innocente e ti comporti come un Dio ingiusto? È la fede che viene scossa. E non c’è una spiegazione esauriente dell’infinita sofferenza del mondo».
E nonostante ciò Giobbe continua a credere.
«La sua preghiera diventa protesta ma non negazione di Dio. Mi viene in mente il racconto di un ebreo che, dopo la distruzione del ghetto di Varsavia, rivolge a Dio un’ultima preghiera: “Dio, hai fatto tutto quello che potevi affinché non ti amassi più. Sono morti i miei cari, gli amici, la moglie e i figli. Tra poco morirò anch’io. Hai provato di tutto pur di farmi perdere la fede. Ma io ti amo lo stesso”».
Si può chiamare eroismo della fede?
«È il sovrumano nell’umano. La speranza che non muore. Davanti alla malattia mi chiedevo: come mi comporterò? Sono stato testimone di che cosa? Ho pensato agli ultimi giorni di Bonhoeffer. Prima di essere giustiziato tenne un culto con le poche persone con cui condivise la cella del carcere. Era solo un rito commiserevole? Non credo. Era il modo più profondo di ristabilire la pace tra gli uomini fin dentro il sacrificio estremo della morte».