Jesús Rodríguez, la Repubblica 30/3/2014, 30 marzo 2014
FERRAN ADRIÀ HO SPENTO I FORNELLI NON IL CERVELLO
BARCELLONA
OGNI MATTINA, dopo le otto, Adrià percorre con passo deciso il tragitto di cinquanta minuti che separa il suo appartamento di cinquanta metri, vicino a plaza de España, a Barcellona, dal suo laboratorio, nascosto in una palazzina del Settecento accanto al mercato della Boqueria. Lo acquistò nel 2000, quando decise di creare un centro di ricerca collegato a El Bulli: una massa critica dove muovere i primi passi sperimentali su prodotti e tecniche culinarie che si sarebbero poi trasformati in piatti innovativi nel suo ristorante, un locale in cui ogni anno tutto era nuovo, dal menu alle stoviglie e a gran parte del personale. Adrià avanza distratto, con la testa china e le mani affondate nelle tasche del vecchio tabarro. Parla a scatti. È un uomo di cinquantuno anni, solido, di bassa statura, capelli radi e ricci e barba grigia di due giorni, sempre vestito di nero: «Mi sono stancato di vestirmi di bianco dopo aver fatto il cuoco per tanti anni. Adesso mi vendico». Suo padre faceva lo stuccatore e sua madre la parrucchiera. È nato nel quartiere operaio di Santa Eulalia, a L’Hospitalet, tra antiche fabbriche tessili, binari e banchi di meloni. Non è andato all’università (ma quattro atenei, dopo il 2008, gli hanno assegnato una laurea honoris causa). A diciassette anni cominciò a lavare i piatti per pagarsi un viaggio a Ibiza. Fu il suo battesimo tra le pentole. A ventidue, nel 1984, dopo il servizio militare, si presentò a El Bulli con una capigliatura afro, la catena d’oro e un’aria alternativa. Nel 1987 ne era già il capo e decise anche che non avrebbe mai più copiato un piatto da un altro chef. Nel 1990, lui e Juli Soler (suo amico e socio da sempre), diventarono proprietari di El Bulli con una scommessa suicida. Nel 1997, ottenne la terza stella Michelin e dal ‘99 cominciò a raccogliere tutte le informazioni raccolte nel ristorante («Appunti, ricette, diari, lettere, disegni, fotografie, modelli in plastilina... non si buttava via niente»), a ordinare e classificare tutta quella sapienza. La sua idea era quella di comporre qualcosa di simile al catalogo ragionato di un artista. L’obiettivo, spiegare le sue fasi creative, l’evoluzione del suo lavoro. Non ha mai frequentato una scuola di cucina. «Forse è per questo che mi sono interrogato su tutto in un modo così sfacciato». Ma i grandi ricettari classici ce li ha registrati nella sua testa. L’altra sua passione è il Barça. La sua grande delusione, non essere un bravo calciatore.
Brusco. Burbero. Cauto con il denaro. Senza un ufficio o altre sofisticatezze, nemmeno quando è ora di mangiare (a parte il buon champagne). Si muove con la comodità che gli consente l’anonimato. Pochi passanti riconoscono il personaggio che è stato per trent’anni lo chef e l’anima di El Bulli: quel ristorante sperduto in una baia di Capo Creus (Girona) che ha cambiato la storia della cucina, eletto come il migliore al mondo per cinque anni e sotto la cui filosofia (anche di vita) si sono formate diverse generazioni di cuochi che hanno esteso la sua rivoluzione, le sue tecniche e la sua ideologia per tutto il mondo. Il modello era un riflesso della personalità di Ferran: un’anarchia strutturata. Disciplina militare e libertà accademica. E molte domande. Sempre intento a polemizzare con la realtà. Un giorno, Brett Littman, direttore del Drawing Center (esclusiva galleria di New York dedicata al disegno, dove Adrià espone dallo scorso 25 gennaio i grafici che sintetizzano e sostengono la sua saggezza culinaria), lo vide tracciare freneticamente su un tovagliolo tre parole: «Why. Why. Why?».
Al Bulli tutto era possibile, i rigidi codici dell’alta cucina, per secoli imposti dalla Francia, Adrià li avrebbe saltati in un sol colpo con decostruzioni e associazioni; gelati salati, gelatine calde, spume e fumi; sferificazioni e liofilizzati. Come ricorda José Andrés, uno chef formatosi a Cala Montjoi tra il 1988 e il 1991 e che oggi ha quindici ristoranti negli Stati Uniti: «Ferran provava tutto e ci incoraggiava a sperimentare, ad andare oltre, contro la logica, a trovare i limiti. Ci facevamo pagare quando era possibile. Dicevano che era matto. È vero, eravamo matti, ma non sono mai stato così felice». Adrià spiega che nel suo ristorante, nato come un chiosco da spiaggia nel 1963, sono passati duemila professionisti. Tra questi, i primi quattro cuochi del mondo, che lo trattano con la venerazione dovuta a un guru: Roca, Redzepi, Bottura e Aduriz.
Ha guadagnato tanti soldi (si fa pagare ottantamila euro a conferenza); ha ottenuto la fama, gli onori, l’affetto dei potenti, la curiosità degli esperti e l’interesse da parte dei media. «Ho imparato più nelle interviste che in tutte le scuole di business, perché le domande dei giornalisti (che non sono scemi) mi obbligano a riflettere». Dal 2003 è stato in prima paginasu New York Times, Time, Le Mon-dee Financial Times; ha pubblicato libri e documentari, ha collaborato con la scienza e l’industria alimentare; ha lavorato per una trentina di multinazionali, e ricevuto fino a due milioni di richieste a stagione per cenare a El Bulli. Poteva soddisfarne solo qualche migliaio nei sei mesi d’apertura. Diventò l’unico ristorante al mondo senza telefono. «Eravamo una macchina che produceva delusioni».
Lo sfacciato successo di El Bulli si trasformò nella sua frustrazione. Adrià più lontano. Il 20 novembre del 2009, nelle due ore di viaggio tra Barcellona e Cala Montjoi, si rese conto che non era felice: «Mio fratello Albert mi disse: “Ferran, abbiamo creato un mostro e ci divorerà”. Perfino mia madre, Josefa, era stufa di me. Il mio personaggio annoiava anche me. Avevamo vinto tutte le Champions. Non ho figli e non mi piace il lusso. Eravamo sistemati. Ma che c’era dopo? Saremmo riusciti a creare al livello degli ultimi vent’anni? Tutto cominciava a essere prevedibile. A quel ritmo potevamo reggere per cinque anni al massimo. Internet era una pressione continua: la sua immediatezza, il fatto che tutto si sa e si copia all’istante, i blogger. Pensai che quello che eravamo riusciti a fare, la nostra eredità, non poteva scomparire. Dovevamo trovare un nuovo linguaggio; cambiare scenario e reinventarci. Fare qualcosa di dirompente. Solo così saremmo potuti durare. Un ristorante chiude, le stelle vanno e vengono, ma una fondazione può durare centocinquant’anni. Non cerca il guadagno. È per tutti. Consente un ritmo diverso. Eravamo abbastanza piccoli e flessibili, ma godevamo di una visibilità sufficiente per provarci. E aprire una strada. C’era vita dopo El Bulli. Non ce ne andavamo; ci trasformavamo. Non sapevamo in che cosa. Sono sempre stato consapevole di dove iniziava, ma mai di dove andava a finire. In tante occasioni, il caso ha lanciato i dadi con me». Parlò con i suoi fedelissimi: non sarebbero più stati cuochi, né camerieri o sommelier, ma documentaristi, esperti in logistica e in nuove tecnologie. «Non ho cercato nessuno all’esterno se a farlo poteva essere qualcuno che era già dentro. Siamo quindici. È una strategia a basso costo. Qui non c’è burocrazia, né spese stupide, né presentazioni con cocktail. Giusto o no?».
Il 26 gennaio del 2010, la notizia che si diffuse come un lampo era che Adrià avrebbe chiuso il ristorante nel luglio dell’anno successivo. L’impatto fu terribile. Alcuni conclusero che Adrià era rovinato, non aveva più idee, che aveva litigato con Juli Soler e con suo fratello Albert, che il fenomeno El Bulli era stato un bluff e il fanfarone si toglieva di mezzo. «Ero a casa in pigiama e mi chiamavano giornalisti da ogni parte. Pensavano che fosse la fine. Si sbagliavano, El Bulli non finiva. Qualche volta ci avevo pensato, ma mia moglie mi diceva che se lo facevo davvero ero un vigliacco. Se come ristorante raggiungevamo seimila commensali, una fondazione avrebbe potuto raggiungere milioni di persone. La nostra idea era quella di essere generosi, di condividere ciò che sappiamo. Volevamo scoprire che cos’è la cucina (non era mai stato fatto), ordinare ogni elemento che partecipa al processo e raccontarlo a chi voglia ascoltare. I progetti di elBullifoundation hanno senso solo se si indirizzano alla sfera pubblica, se intendono informare ed educare la gente, se si rivolgono alle università e alle scuole di cucina. Prima creavo dei piatti e adesso voglio creare dei creatori di piatti». E prosegue: «Il tempo che ci era rimasto al ristorante lo usammo per goderci i nostri clienti. Quell’anno e mezzo ci servì anche per raccogliere i primi soldi. Feci una trentina di cene per aziende raccogliendo quattro milioni di euro. Poi mettemmo all’asta la nostra cantina tramite Sotheby’s a New York e a Hong Kong, altri due milioni». Solo tre mesi dopo “l’ultimo valzer di El Bulli” (il 30 luglio del 2011) cominciò a coinvolgere le grandi scuole di business nella scommessa di dare forma alla sua fondazione: Harvard, Berkeley, Columbia, London Business School ed Esade, con Joseph Stiglitz in funzione di arbitro.
Adrià risale la Rambla concentrato nel suo universo. Lui solo controlla il puzzle della sua fondazione e i suoi tentacoli. «È uno stile dittatoriale, almeno finché io sono vivo. Giusto o no?». Solo Adrià ha la mappa completa. E la bussola per muoversi in quel labirinto. È in ballo dalle 5,30, riflette, con l’eterna matita sull’orecchio destro e l’abituale mancanza di tatto con cui sveglia ogni mattina all’alba sua moglie, Isabel Pérez, un’economista conosciuta nell’estate dell’89. Approfitta del primo tragitto della giornata per parlare al telefono, rispondere alle mail e rilasciare interviste. Non ha segretaria né addetto stampa. Dicono che sia bravo a giocare in Borsa.
Il progetto elBullifoundation ha tre cardini e come scenario il territorio del vecchio ristorante, dove l’architetto Enric Ruiz-Geli ha progettato uno spazio espositivo, ecologico e sostenibile, dedicato alla creatività. La cucina è solo il veicolo. Questo non-museo, il cui progetto è già cambiato tre volte in tre anni, potrà contare su più di cinquemila metri quadrati e parte da una legge fatta su misura per Adrià dalla Generalitat della Catalogna, essendo incastonato in un parco naturale dove è proibito costruire (in cambio del permesso, Adrià donerà quel terreno e l’archivio di El Bulli, valutati quindici milioni di euro, all’erario pubblico). Lo spazio si chiamerà El Bulli1846: il numero di elaborazioni create nel ristorante. La prima pietra verrà posta quest’anno e sarà completato in diciotto mesi. Poi c’è elBulliDNA, ovvero il team creativo, la linfa che continuerà la ricerca culinaria con esperti di altre discipline a Cala Montjoi, anche se potrà spostarsi in tutto il mondo. Infine, Bullipedia: una banca dati infinita che ordina (per la prima volta nella storia) tutto il sapere culinario tramite una nuova classificazione del processo gastronomico e del processo creativo, realizzata negli ultimi due anni dalla sua squadra. Scende fino alle particelle elementari della cucina e si basa su due intricate mappe interattive che sono la tabella di marcia per muoversi nell’universo Adrià. Lui ha smesso di essere un cuoco per trasformarsi in agitatore, in calamita che attrae conoscenze. A volte, di fronte ai gesti di simulato scetticismo dei suoi interlocutori, replica con aria imbronciata: «Questo non è uno scherzo! È molto importante!».
(Traduzione di Louis E. Moriones)
©El País Semanal