Enrico Franceschini, Il Venerdì 28/3/2014, 28 marzo 2014
E DOPO AVER SVELATO I SEGRETI DI DOWNING STREET SOGNO LE MEMORIE DI SILVIO B.
LONDRA. «Di tradimenti politici ne sapete qualcosa anche voi italiani, fin dai tempi di Bruto e Giulio Cesare, per cui penso che non farete fatica ad appassionarvi alla mia storia». Michael Dobbs è il creatore di House of Cards: ha scritto il romanzo originale venticinque anni fa, poi un paio di volumi di seguito, quindi ha collaborato alla sceneggiatura della versione televisiva che ne è stata tratta in Gran Bretagna e anche a quella della versione americana. Nel frattempo ha smesso di fare politica: era capo di gabinetto di Margaret Thatcher, quando la Lady di ferro è stata Primo ministro, ha ricoperto una varietà di altri incarichi, infine è stato nominato baronetto ed è entrato alla camera dei Lord. Ma la sua fama è legata soprattutto al ruolo di autore di quello che viene definito dalla critica inglese «il miglior thriller politico di tutti i tempi».
Se lo immaginava un successo simile e così longevo, sir Michael, quando cominciò a scriverlo?
«Niente affatto. Non sapevo neppure se sarei riuscito a terminarlo. Cominciai come passatempo e sono stato il primo a sorprendermi della popolarità del romanzo e poi dei film televisivi che ha ispirato».
È tutta esperienza personale, quella che si legge nel romanzo e si vede nella serie tv?
«Al 90 per cento sì, ma non tutto quello che racconto è stato compiuto da una sola persona e certamente non in un solo momento. È un compendio di quello a cui ho assistito, vedendo il potere politico da vicino, nell’arco della mia ventennale carriera dentro e intorno a Downing street. Anche se, ci tengo a specificarlo, non ho mai visto un primo ministro gettare un avversario giù dalle finestre del parlamento».
Personalmente le è piaciuto di più il serial tivù britannico o quello americano tratto da House of Cards?
«Li ho trovati formidabili entrambi, non riesco a dire quale sia il mio preferito. È come chiedere a un campione olimpico se ha avuto più soddisfazione dalla medaglia d’oro nei 5 mila metri o negli 8 mila. Devo dire però che collaborare alla fattura della serie americana è stata una meravigliosa avventura, uno dei periodi più felici della mia vita dal punto di vista creativo».
La lotta politica britannica è davvero così sporca e brutale come lei la descrive?
«Lo è stata sicuramente quando lo scontro ideologico era più forte e il mondo era ancora radicalmente diviso in due dalla Guerra fredda, sebbene proprio ora vediamo che le divisioni esistono ancora e dunque anche i complotti che ne derivano. Anche la politica è una guerra, specie quando i governi sono fragili, i partiti frantumati dalle correnti e la possibilità di un cambio di leadership può avvenire facilmente».
Sembra quasi che lei descriva il nostro Paese: è contento che il suo libro arrivi ora anche da noi?
«Molto, perché in un certo senso è un ritorno a casa. Tra le opere che ho più amato, e che mi hanno influenzato nello scrivere House of Cards, c’è anche il Giulio Cesare di Shakespeare, una vicenda vecchia di duemila anni ma sempre valida per capire che in politica si annida spesso un Bruto pronto a colpire un amico o un maestro nel tentativo di prenderne il posto. Talvolta uno scrittore deve lavorare di fantasia per rendere più credibile il suo racconto, perché in politica accadono cose talmente incredibile che a raccontarle in un romanzo sembrano irrealistiche, inimmaginabili».
A cosa si riferisce, a proposito dell’Italia?
«Diciamo che aspetterei con trepidazione la pubblicazione delle memorie di Silvio Berlusconi, sicuro che in quelle pagine troverei materiale per un’altra intera serie di romanzi su tradimenti, complotti e pugnalate alla schiena, per tacere di tutto il resto».