Elena Martelli, Il Venerdì 28/3/2014, 28 marzo 2014
MA CHE BELLO IL POTERE SENZA LIMITI
La verità è che si ama quella carogna di Frank Underwood perché in realtà lui è un serial killer prestato alla politica. Solo che, avendo la Casa Bianca come obiettivo, non ti viene da pensare a Kevin Spacey in quel senso, e nemmeno ad House of Cards come a Seven, sebbene i primi due episodi siano diretti da David Fincher, anche produttore, che ne ha definito tutto lo stile. Invece, il meccanismo narrativo alla base di questo thriller politico scritto da Beau Willimon (l’autore di Farragut North da cui George Clooney ha tratto Le idi di marzo) è proprio quello. Farti innamorare della mente di Frank, questo affascinante sociopatico che usa la seduzione come un samurai la sua spada.
A muovere la storia è la sua vorace ambizione. E quando il nuovo presidente degli Stati Uniti, che Frank, a capo del congresso dei democratici ha contribuito a far eleggere, non lo nomina segretario di Stato come gli spetterebbe, parte all’attacco, andandosi a prendere quel che gli spetta. Con eleganza, ironia e sadica cattiveria. Nel frattempo t’innamori di lui, che guardandoti dritto in macchina – un espediente narrativo che svela humour e fintissima voglia di condivisione – ti racconta, con sottile piacere, le sue congetture machiavelliche. Perché lui, mentre accompagna sull’abisso tutti i suoi avversari politici, ti vuole dalla sua parte. E quindi tu lì stai, ad aspettare il suo sguardo in macchina, la sua frase successiva.
«Il potere è come il mercato immobiliare. È tutta una questione di location. Più sei vicino alla fonte, più la tua proprietà vale» dice rivolgendosi allo spettatore. E, in effetti, siamo tutti così tremendamente affascinati dal tema del potere su cui poggia questo grandissimo affresco shakespeariano, che ci appassioniamo a lui al punto di fondare partiti: quello pro Frank-Macbeth e quello pro-Riccardo III, che tra l’altro Spacey ha recitato a teatro con la regia di Sam Mendes, traendone un documentario sul making of che l’attore, due volte premio Oscar, venderà direttamente sul suo sito a primavera: «Se avete amato il mio lavoro per House of Cards capirete da dove siamo partiti».
Certo, poi Frank può anche essere un misto di Lincoln e Johnson, per stare a quel che azzardava Spacey in occasione del lancio della seconda stagione. La prima parte il 9 aprile sul canale 110 di Sky Atlantic. «Anche Johnson e Lincoln qualche compromesso l’hanno fatto, per ottenere il bene comune, e mica sappiamo in che modo» ricordava Spacey, più realista del re.
Ora, anche se risulta difficile mettere la parola bene in bocca a Frank, che sembra muoversi più per il bene suo che per quello della collettività, non è ancora alle cronache che i due presidenti in questione abbiano fatto fuori qualcuno con le loro mani. Cosa che l’adorato Frank fa, con la complicità dell’elegantissima e glaciale moglie Claire. Questa sofisticata e minimal Lady Macbeth (interpretata da Robin Wright) in gonna a tubo, camicia bianca e Louboutin che lo spinge, con la tipica calma dei forti, a vendicarsi, a rilanciare e a rientrare insomma nella stanza dei bottoni. Autorizzando la sua ascesa e ogni mezzo pur di godersi la partita in tribuna d’onore. «Non ho sposato un uomo che si lamenta. Il mio uomo è uno che sta in piedi anche tutta la notte per tessere la sua tela e Elena Martelli prendersi l’indomani quel che gli spetta», dice Claire a Frank la notte in cui lui torna a casa non fresco di nomina. Poi va a letto, lasciandolo giù nel living a fare i compiti. E lui, dopo aver parecchio vogato (letteralmente: è il suo modo per sfogarsi, visto che entrambi non bevono, non fumano se non una sigaretta a metà, perché tutto è sotto controllo, tutto è potere e jogging) va a prendersi la Casa Bianca.
«Democracy is so overrated» dice il Lupo della Casa Bianca, guardando in macchina. Mentre Claire, a capo di un’associazione di beneficenza, lavora ai fianchi. «Amo quella donna più di quanto gli squali amino il sangue ». Come lui, anche lei per essere una macchina da guerra, deve essere immune dai sentimenti. Senza rimorsi, licenzia una donna incinta (lasciandola senza assicurazione medica) che lavora con lei; senza fare un plissé aspetta che Frank consumi la sua relazione con Zoe (Kate Mara), la giornalista che per tutta la prima serie lui manovra a suo piacimento per controllare i media. E senza rimpianti lascia il suo amante, che sarà anche bravo a letto ma è pur sempre poco per una come Claire, che invece di sognare il principe azzurro ha sempre aspirato a un uomo che non la facesse annoiare mai. Aiutandola a diventare qualcosa di «significante». Che nel suo linguaggio non significa affetti, famiglia, bambini... Frank odia i bambini. Insomma, tutto questo per dire che Claire e Frank, pur nell’iperbole della power couple in cui giganteggiano («il sesso riguarda tutto meno che il sesso. Perché il sesso è una questione di potere»), raccontano molto di quel che sta dietro a certi rapporti di coppia.
Non ho visto la miniserie inglese ambientata nel periodo post-Thatcher a cui si ispira la versione americana. Ma tale grandezza deve per forza nascere alla fonte, cioè dalla trilogia di romanzi di Michael Dobbs, scrittore e deputato britannico (vedi intervista qui a fianco) che iniziò a scrivere la storia di Frank (edita in Italia da Fazi) nel 1989, dopo aver lavorato per anni con Margareth Thatcher, seguendola, dall’opposizione fino a Westminster, nel periodo in cui la Lady di ferro fu Primo ministro. Tuttora la serie è considerata uno dei capolavori della Bbc.
Dall’anno scorso House of Cards è diventata «patrimonio dell’umanità» e il simbolo di Netflix che l’ha prodotta, usandola come il cavallo di Troia per entrare a gamba tesa nel mercato della produzione, rivoluzionandola dall’interno. Netflix come la nuova Hbo, insomma, con la differenza che lanciando sul mercato i capitoli (si chiamano così, non puntate) tutti insieme, ha mandato in tilt anni di cliffhanger, cioè l’interruzione di una puntata sul più bello. E ha imposto una nuova visione delle serie tv, più letteraria e più vicina ai film in dvd. Non a caso qualche giorno fa Salon.com ha titolato: «Come Netflix e Hbo hanno ucciso gli Oscar».