Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 30 Domenica calendario

IL MAESTRO DEI QUADRI ANIMATI GUERNICA SI MUOVE: È VIVA


Per qualche settimana Peter Greenaway si è trasferito in Messico, dove ha lavorato al suo nuovo film, ispirato a Que viva Mexico! , l’opera di Ejzenštejn girata tra il 1931 e il 1932 (rimasta incompiuta). Si tratta di un omaggio quasi naturale, per Greenaway. Che, sin dagli anni giovanili, ha guardato con ammirazione al regista de La corazzata Potëmkin , il quale, nei suoi scritti teorici, aveva spesso sottolineato la necessità di individuare connessioni tra territori linguistici poco contigui. Pur tenendo conto delle differenze tra i vari media, secondo Ejzenštejn, occorre far affiorare geografie mobili, all’interno delle quali pratiche diverse possano continuarsi. In questo orizzonte, il cinema va pensato come lo «stadio contemporaneo della pittura».
Sulle orme del discorso eisensteniano, Peter Greenaway ritiene che tra questi due dispositivi vi siano tante assonanze. Dice: «Il cinema è nato alla fine del XVI secolo con Caravaggio, Rembrandt, Rubens e Velázquez. Nelle loro opere, essi hanno già presente ogni elemento cinematografico: hanno anche il movimento e quasi includono il suono». In tal senso, rivelatori alcuni suoi film (come I misteri del giardino di Compton House , Lo zoo di Venere , I l ventre dell’architetto ), segnati da riferimenti al Rinascimento e al Barocco e contraddistinti dalla fermezza delle inquadrature.
L’ambizione è chiara: violare i confini tra le discipline, per elaborare un genere ulteriore, all’interno del quale possano confluire pittura e cinema, «in virtù di richiami incrociati e di associazioni». È quel che afferma Greenaway in una lecture tenuta nel 2010 a Berkeley, dove si è innanzitutto soffermato sui limiti del cinema: costringe lo spettatore a rimanere seduto, in claustrofobiche sale buie; non riesce a emanciparsi dal legame con la letteratura; è vincolato alla centralità degli attori; tende a utilizzare la cinepresa come un occhio morto. Muovendo da qui, il regista descrive un percorso che si ripete ciclicamente: dapprima, si definisce la specificità di un determinato medium; poi, si perfeziona quello stesso medium; infine, lo si destabilizza.
Ora siamo nella fase della decostruzione. In un’età di multiculturalismo, anche le esperienze artistiche devono farsi ibride. Specchio di questa concezione è il progetto avviato nel 2006, Ten Classic Paintings Revisited . Un polittico in progress . Una sorta di museo immaginario, sulle cui pareti si trovano riletture di episodi decisivi della civiltà artistica occidentale.

Finora Greenaway ha ri-fatto La ronda di notte di Rembrandt, L’ultima cena di Leonardo e L e nozze di Cana di Veronese. Dal 2010 si sta dedicando a Guernica . La comunità basca avrebbe dovuto finanziare questa riscrittura. Che sarebbe stata presentata al Guggenheim di Bilbao e a Vitoria. Poi, la «trasposizione» di Greenaway sarebbe stata allestita nei luoghi dove Guernica è stata esposta: da Parigi alla Sala delle Cariatidi nel Palazzo Reale di Milano, dal Moma di New York al Casón del Buen Retiro di Madrid, al Prado e al Reina Sofia. Per ragioni economiche, questo tour è stato annullato. Dopo l’Expo (nell’autunno del 2015) Guernica di Greenaway sarà a Milano, nella Sala delle Cariatidi. Su uno schermo verrà resa tridimensionale l’epica tragica di Picasso. Quest’architettura visiva sarà affiancata da altri schermi, sui quali si ritroveranno alcuni particolari del quadro e filmati d’epoca. Nell’ambiente ci saranno anche due «torri trasparenti, come teche di un museo — dice Greenaway — in cui verranno congelati episodi di violenza». Forse, questo «palinsesto» verrà arricchito da un affresco cui Picasso pare si sia ispirato: Il trionfo della morte (conservato a Palermo).
Qualche mese prima — sempre a Milano — Greenaway si misurerà con Lo sposalizio della Vergine di Raffaello (a Brera). Nelle intenzioni del regista, c’è il desiderio di «moltiplicare» quel dipinto anche in Umbria, a Città di Castello, nella chiesa di San Francesco (originaria collocazione del quadro). Dopo queste imprese, nei prossimi anni, il regista inglese incontrerà Las meniñas di Velázquez, Le ninfee di Monet, La domenica a la Grande Jatte di Seurat, One: number 31 di Pollock e Il Giudizio Universale di Michelangelo. Dunque, dal Rinascimento alla modernità, per ritornare al Rinascimento.
«Se Leonardo vivesse nel nostro tempo, impavido, temerario e sperimentatore infaticabile, utilizzerebbe le tecnologie visuali più evolute, cercando di spingerne i confini sempre oltre il conosciuto», ripete Greenaway. Il quale, per le sue «rivisitazioni», tende a ricreare l’atmosfera delle botteghe rinascimentali, dove il maestro era circondato da assistenti e collaboratori. Avvalendosi di un ampio staff, fatto di produttori, ingegneri e tecnici, grazie al sostegno della società Change Performing Arts (diretta da Franco Laera), procede alla modellizzazione in 3D dei dipinti (curata da una équipe guidata da Reinier van Brummelen), per rilevarne la densità cromatica. Poi, Adam Lowe, con il suo team di Madrid, esegue un «clone». Ovvero, una proiezione puntuale: una ri-costruzione rigorosa. Eppure, non siamo al cospetto di riproduzioni senz’anima. Greenaway sa che il copista, come ricordava Ragghianti, non aderisce mai all’apparenza esteriore dell’opera, ma spesso ne penetra gli strati e le fibre: «Compie anche una scelta responsabile e cosciente, scelta che è una identificazione o un sondaggio di condizioni valide per la propria espressione». Ecco cosa sono i Classic Paintings Revisited : traduzioni sottilmente infedeli. Greenaway sceglie un dipinto e lo rifà con una strumentazione high tech. Avvia un dialogo prudente con l’originale. Poi, attenua e schiaccia gli spessori materici. In seguito, proietta il facsimile: talvolta, direttamente sull’opera autentica (come nel caso di Leonardo a Santa Maria delle Grazie a Milano); altre volte, all’interno di contesti diversi (Le nozze di Cana , al Louvre dal 1798, è stato sistemato nella sua originaria destinazione, la parete di fondo del refettorio dell’Isola di San Giorgio, progettato da Palladio).

Di fronte a noi sofisticate ri-mediazioni, nelle quali si sovrappongono pittura e cinema: «Il nuovo medium può rimediare cercando di assorbire completamente il medium più vecchio, così da minimizzare le discontinuità tra i due» (J. D. Botler — R. Grusin). Affidandosi agli artifici della presa in prestito e del riposizionamento, Greenaway ri-situa alcuni momenti storico-artistici dentro una costellazione fisica e tecnologica inattesa. Ripropone L’ultima cena o Guernica quasi alla stessa maniera; e, tuttavia, le ri-semantizza. Quelle opere acquisiscono ulteriori possibilità espressive, inesplorate dimensioni; ma perdono qualcosa di se stesse. L’aura viene violata e, insieme, riaffermata: anche se su un registro differente. Si prediligono le icone ferme: quasi anti-cinematografiche. «Dobbiamo sbarazzarci della cinepresa. È uno strumento stupido», dice Greenaway. Che si comporta come un interprete, intento a indugiare su barlumi spesso marginali: enfatizza volti, gesti, simboli. Spesso, poi, sugli schermi laterali, scompone il capolavoro «acquisito» in tante sezioni. Concepisce ogni suo «clone» come una forma di realtà aumentata. Il suo obiettivo è segretamente didattico: aiutare a comprendere meglio i dipinti.
Accompagnate anche da musiche, suoni, parole e immagini, le installazioni di Greenaway tengono insieme linguaggi diversi: non solo pittura e cinema, ma anche teatro, musica, computer graphic, videogame, letteratura. Lo spettatore non deve limitarsi a guardare: può entrare dentro ambienti avvolgenti. Meta ultima, l’interattività: «La cercano le generazioni del computer. È la strada dei nostri tempi».
Per Greenaway, confrontarsi con i capolavori del passato non è un’operazione archeologica. È un modo per ravvivare le emozioni da essi suscitate e per dilatare gli spazi del fantastico. Mentre esplora Leonardo, Rembrandt, Raffaello, Veronese o Picasso, disegna universi di senso paralleli. Sembra voler rendere giustizia a quella che è la segreta ambizione di ogni «classico»: lo fa succedere qui e ora. Lo tratta come materia bruciante. Lo emancipa dall’identità in cui l’erudizione e la filologia tende a inchiodarlo. Libera ciò che, in esso, è significato non ancora espresso, parola non ancora pronunciata. Immette quelle memorie in questo tempo. I Classic Paintings Revisited : dissonanti archivi, nei quali le orme della tradizione si confondono con quelle della modernità, in un gioco di corrispondenze e di metamorfosi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Venezia
Venerdì 4 aprile
(ore 18, Auditorium
Santa Margherita),
per la VII edizione del Festival internazionale
di letteratura Incroci
di civiltà: — dal 2 al 5 aprile; informazioni su www.incroci dicivilta.org
— Peter Greenaway terrà una conversazione
sul rapporto tra cinema
e letteratura
Milano
Due gli appuntamenti milanesi legati all’Expo 2015: il «clone» che Greenaway creerà in situ nel museo di Brera dello Sposalizio della Vergine di Raffaello e
(a novembre) a Palazzo Reale, nella Sala delle Cariatidi, la sua rilettura di Guernica di Picasso
Per qualche settimana Peter Greenaway si è trasferito in Messico, dove ha lavorato al suo nuovo film, ispirato a Que viva Mexico! , l’opera di Ejzenštejn girata tra il 1931 e il 1932 (rimasta incompiuta). Si tratta di un omaggio quasi naturale, per Greenaway. Che, sin dagli anni giovanili, ha guardato con ammirazione al regista de La corazzata Potëmkin , il quale, nei suoi scritti teorici, aveva spesso sottolineato la necessità di individuare connessioni tra territori linguistici poco contigui. Pur tenendo conto delle differenze tra i vari media, secondo Ejzenštejn, occorre far affiorare geografie mobili, all’interno delle quali pratiche diverse possano continuarsi. In questo orizzonte, il cinema va pensato come lo «stadio contemporaneo della pittura».
Sulle orme del discorso eisensteniano, Peter Greenaway ritiene che tra questi due dispositivi vi siano tante assonanze. Dice: «Il cinema è nato alla fine del XVI secolo con Caravaggio, Rembrandt, Rubens e Velázquez. Nelle loro opere, essi hanno già presente ogni elemento cinematografico: hanno anche il movimento e quasi includono il suono». In tal senso, rivelatori alcuni suoi film (come I misteri del giardino di Compton House , Lo zoo di Venere , I l ventre dell’architetto ), segnati da riferimenti al Rinascimento e al Barocco e contraddistinti dalla fermezza delle inquadrature.
L’ambizione è chiara: violare i confini tra le discipline, per elaborare un genere ulteriore, all’interno del quale possano confluire pittura e cinema, «in virtù di richiami incrociati e di associazioni». È quel che afferma Greenaway in una lecture tenuta nel 2010 a Berkeley, dove si è innanzitutto soffermato sui limiti del cinema: costringe lo spettatore a rimanere seduto, in claustrofobiche sale buie; non riesce a emanciparsi dal legame con la letteratura; è vincolato alla centralità degli attori; tende a utilizzare la cinepresa come un occhio morto. Muovendo da qui, il regista descrive un percorso che si ripete ciclicamente: dapprima, si definisce la specificità di un determinato medium; poi, si perfeziona quello stesso medium; infine, lo si destabilizza.
Ora siamo nella fase della decostruzione. In un’età di multiculturalismo, anche le esperienze artistiche devono farsi ibride. Specchio di questa concezione è il progetto avviato nel 2006, Ten Classic Paintings Revisited . Un polittico in progress . Una sorta di museo immaginario, sulle cui pareti si trovano riletture di episodi decisivi della civiltà artistica occidentale.

Finora Greenaway ha ri-fatto La ronda di notte di Rembrandt, L’ultima cena di Leonardo e L e nozze di Cana di Veronese. Dal 2010 si sta dedicando a Guernica . La comunità basca avrebbe dovuto finanziare questa riscrittura. Che sarebbe stata presentata al Guggenheim di Bilbao e a Vitoria. Poi, la «trasposizione» di Greenaway sarebbe stata allestita nei luoghi dove Guernica è stata esposta: da Parigi alla Sala delle Cariatidi nel Palazzo Reale di Milano, dal Moma di New York al Casón del Buen Retiro di Madrid, al Prado e al Reina Sofia. Per ragioni economiche, questo tour è stato annullato. Dopo l’Expo (nell’autunno del 2015) Guernica di Greenaway sarà a Milano, nella Sala delle Cariatidi. Su uno schermo verrà resa tridimensionale l’epica tragica di Picasso. Quest’architettura visiva sarà affiancata da altri schermi, sui quali si ritroveranno alcuni particolari del quadro e filmati d’epoca. Nell’ambiente ci saranno anche due «torri trasparenti, come teche di un museo — dice Greenaway — in cui verranno congelati episodi di violenza». Forse, questo «palinsesto» verrà arricchito da un affresco cui Picasso pare si sia ispirato: Il trionfo della morte (conservato a Palermo).
Qualche mese prima — sempre a Milano — Greenaway si misurerà con Lo sposalizio della Vergine di Raffaello (a Brera). Nelle intenzioni del regista, c’è il desiderio di «moltiplicare» quel dipinto anche in Umbria, a Città di Castello, nella chiesa di San Francesco (originaria collocazione del quadro). Dopo queste imprese, nei prossimi anni, il regista inglese incontrerà Las meniñas di Velázquez, Le ninfee di Monet, La domenica a la Grande Jatte di Seurat, One: number 31 di Pollock e Il Giudizio Universale di Michelangelo. Dunque, dal Rinascimento alla modernità, per ritornare al Rinascimento.
«Se Leonardo vivesse nel nostro tempo, impavido, temerario e sperimentatore infaticabile, utilizzerebbe le tecnologie visuali più evolute, cercando di spingerne i confini sempre oltre il conosciuto», ripete Greenaway. Il quale, per le sue «rivisitazioni», tende a ricreare l’atmosfera delle botteghe rinascimentali, dove il maestro era circondato da assistenti e collaboratori. Avvalendosi di un ampio staff, fatto di produttori, ingegneri e tecnici, grazie al sostegno della società Change Performing Arts (diretta da Franco Laera), procede alla modellizzazione in 3D dei dipinti (curata da una équipe guidata da Reinier van Brummelen), per rilevarne la densità cromatica. Poi, Adam Lowe, con il suo team di Madrid, esegue un «clone». Ovvero, una proiezione puntuale: una ri-costruzione rigorosa. Eppure, non siamo al cospetto di riproduzioni senz’anima. Greenaway sa che il copista, come ricordava Ragghianti, non aderisce mai all’apparenza esteriore dell’opera, ma spesso ne penetra gli strati e le fibre: «Compie anche una scelta responsabile e cosciente, scelta che è una identificazione o un sondaggio di condizioni valide per la propria espressione». Ecco cosa sono i Classic Paintings Revisited : traduzioni sottilmente infedeli. Greenaway sceglie un dipinto e lo rifà con una strumentazione high tech. Avvia un dialogo prudente con l’originale. Poi, attenua e schiaccia gli spessori materici. In seguito, proietta il facsimile: talvolta, direttamente sull’opera autentica (come nel caso di Leonardo a Santa Maria delle Grazie a Milano); altre volte, all’interno di contesti diversi (Le nozze di Cana , al Louvre dal 1798, è stato sistemato nella sua originaria destinazione, la parete di fondo del refettorio dell’Isola di San Giorgio, progettato da Palladio).

Di fronte a noi sofisticate ri-mediazioni, nelle quali si sovrappongono pittura e cinema: «Il nuovo medium può rimediare cercando di assorbire completamente il medium più vecchio, così da minimizzare le discontinuità tra i due» (J. D. Botler — R. Grusin). Affidandosi agli artifici della presa in prestito e del riposizionamento, Greenaway ri-situa alcuni momenti storico-artistici dentro una costellazione fisica e tecnologica inattesa. Ripropone L’ultima cena o Guernica quasi alla stessa maniera; e, tuttavia, le ri-semantizza. Quelle opere acquisiscono ulteriori possibilità espressive, inesplorate dimensioni; ma perdono qualcosa di se stesse. L’aura viene violata e, insieme, riaffermata: anche se su un registro differente. Si prediligono le icone ferme: quasi anti-cinematografiche. «Dobbiamo sbarazzarci della cinepresa. È uno strumento stupido», dice Greenaway. Che si comporta come un interprete, intento a indugiare su barlumi spesso marginali: enfatizza volti, gesti, simboli. Spesso, poi, sugli schermi laterali, scompone il capolavoro «acquisito» in tante sezioni. Concepisce ogni suo «clone» come una forma di realtà aumentata. Il suo obiettivo è segretamente didattico: aiutare a comprendere meglio i dipinti.
Accompagnate anche da musiche, suoni, parole e immagini, le installazioni di Greenaway tengono insieme linguaggi diversi: non solo pittura e cinema, ma anche teatro, musica, computer graphic, videogame, letteratura. Lo spettatore non deve limitarsi a guardare: può entrare dentro ambienti avvolgenti. Meta ultima, l’interattività: «La cercano le generazioni del computer. È la strada dei nostri tempi».
Per Greenaway, confrontarsi con i capolavori del passato non è un’operazione archeologica. È un modo per ravvivare le emozioni da essi suscitate e per dilatare gli spazi del fantastico. Mentre esplora Leonardo, Rembrandt, Raffaello, Veronese o Picasso, disegna universi di senso paralleli. Sembra voler rendere giustizia a quella che è la segreta ambizione di ogni «classico»: lo fa succedere qui e ora. Lo tratta come materia bruciante. Lo emancipa dall’identità in cui l’erudizione e la filologia tende a inchiodarlo. Libera ciò che, in esso, è significato non ancora espresso, parola non ancora pronunciata. Immette quelle memorie in questo tempo. I Classic Paintings Revisited : dissonanti archivi, nei quali le orme della tradizione si confondono con quelle della modernità, in un gioco di corrispondenze e di metamorfosi.