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 2014  marzo 30 Domenica calendario

NIENTE ILLUSIONI, L’UNIVERSO NON È MATEMATICO


Narrazione saggistica serrata e avvolgente, il recente libro del fisico del Mit Max Tegmark (Our Mathematical Universe ) è un ambizioso tour de force sulle più aggiornate conoscenze fisico-cosmologiche, dalle fluttuazioni quantistiche all’estensione spazio-temporale dell’universo osservabile. Insieme concreto e speculativo fino all’azzardo, Tegmark incrina il rigore teorico-sperimentale (Big Bang e Big Crunch, energia e materia oscura) con troppi cedimenti alla fisica fanta-new age (il multiverso e i mondi paralleli); ma fatta la tara a queste concessioni meta o patafisiche, il libro ha il merito indubbio di rilanciare con forza l’ipotesi, riassunta nel titolo, di un universo intrinsecamente fisico-matematico. Pur poggiandosi sulle più recenti teorie della coscienza, Tegmark vede infatti il cervello come una soglia più passiva che attiva, una mini-specola da cui osservare e scoprire — passo a passo — la rete immutabile di relazioni numeriche entro cui si organizzano stati e dinamiche della materia, dalle galassie più remote agli alberi di una foresta, dai moti dei pianeti al traffico urbano.

Nella sua versione hard — come quella di certi matematici «formalisti» — questa visione si spinge a rendere la trama matematica (aritmetica, geometria, algebra e topologia) totalmente autonoma non solo rispetto al Soggetto (al cervello), ma anche alla materia stessa. Questo senso di onnipotenza — come mostra il matematico Steven Strogatz nel suo La gioia dei numeri — è dovuto sia alle proprietà della disciplina (la sua coerenza, che si traduce spesso in concisione e bellezza), sia soprattutto alla sua efficacia descrittivo-esplicativa, tutt’altro che «irragionevole», come vorrebbe l’adagio di Eugene Wigner: vedi i nessi tra le equazioni differenziali e le leggi del moto, tra il calcolo infinitesimale e i cambiamenti di stato (dalle epidemie all’«effetto» di una palla), tra la logica binaria (0 e 1) e la codifica di suoni e immagini su un tablet. Vertice di questa efficacia sono forse le onde sinusoidali, che troviamo nelle dune desertiche, nelle vibrazioni della voce umana e nelle «increspature» della materia da cui si è originato il cosmo che abitiamo.
Eppure, ricorrendo a uno scienziato cognitivo come Stanislas Dehaene o alle riflessioni di un neurobiologo come Jean-Pierre Changeux (in un dialogo memorabile con il matematico Alain Connes), possiamo ribaltare la prospettiva, e vedere gli oggetti matematici (teoremi, proposizioni, assiomi) come «oggetti mentali stabili» prodotti dall’evoluzione, selezionati e aggregati via via proprio per la loro adeguatezza nell’aderire alle regolarità del mondo esterno, di cui il nostro cervello è incessantemente vorace per meglio adattarsi all’ambiente. Questa continuità tra biologia e cultura è ben riassunta dalla simmetria, proiettata in tempi preistorici dalla nostra morfologia bilaterale in schemi di orientamento e giudizio estetico (la scelta del partner) e poi eletta a pattern artistico (come in un quadro di Piero della Francesca o in una fuga di Bach) e a principio di teorie matematiche come quella dei «gruppi», oggi decisiva nel tentativo di armonizzare la dimensione «macro» della gravitazione con quella «micro» dei quanti.
È una continuità che tocchiamo, ancora più concretamente, nel «senso dei numeri» di cui siamo tutti, più o meno, dotati: riscontrato anche in altri animali (le capacità di conteggio nei ratti e nei colombi) e nei bambini già tra 2 e 6 mesi, questa predisposizione ha prodotto, in vari periodi e regioni geografiche, sequenze sempre più complesse e astratte, dalle tacche sulle ossa neolitiche per conteggiare i successi di caccia ai recenti oggetti elastici della topologia (i nastri di Moebius usati per raddoppiare certe memorie informatiche), passando per le misurazioni astronomiche babilonesi o la trigonometria usata dagli agrimensori.

Ed è proprio questa storicità uno degli argomenti contro il platonismo matematico: perché se è vero che la matematica non patisce i vincoli delle scienze sperimentali — che le sue teorie non smentiscono le precedenti ma le integrano, com’è successo per le geometrie non euclidee con le euclidee — il suo processo cumulativo è ugualmente sottoposto a spietati scarti di ipotesi e a congetture tormentate, come conferma la «possessione» patologica di tanti grandi matematici. E anche se Connes insiste nel distinguere l’immenso paesaggio matematico dai suoi esploratori (la Realtà matematica dagli strumenti che la decifrano), non bisogna dimenticare che quegli strumenti sono antropomorfici, vincolati alla categorie dell’immaginazione e della logica del cervello umano. Se così non fosse, l’adeguatezza descrittiva della matematica risulterebbe davvero «irragionevole».
Inoltre, indagare proprio le basi neurofisiologiche del «senso dei numeri» dissolve un altro equivoco: quello sulla glacialità anaffettiva della disciplina. Se è infatti innegabile che l’attività matematica coinvolga soprattutto aree corticali (in particolare la corteccia parietale inferiore), una simile specializzazione, come per tutte le funzioni cerebrali, va collocata in un contesto più plastico e distribuito. Lo vediamo bene nella creazione-scoperta del matematico: da un lato (esemplare il caso «proustiano» di Poincaré, che vede emergere d’improvviso la soluzione d’un problema al rientro da un’escursione geologica, dopo averlo lasciato in stand-by ) anche le intuizioni matematiche seguono un processo di incubazione-ruminazione, per lo più inconscio, in cui l’illuminazione irrompe come risonanza di elementi preesistenti. Dall’altro, l’illuminazione stessa scatena un’intensa gratificazione del cervello «limbico» (affettivo-emotivo), tanto da essere paragonata da diversi matematici all’estasi mistica.

Potente in quanto linguaggio universale e privo di ambiguità, la matematica non può però trascendere limiti e vincoli; quelli intrinseci al suo stesso linguaggio (ben descritti da Gödel) e quelli dei matematici che lo producono, così come la fisica, nelle misurazioni subatomiche, ha dovuto affrontare l’interferenza dell’osservatore. Non può cioè descrivere il mondo «dal punto di vista di Dio»: le sue complesse elaborazioni si adattano ma non coincidono con gli oggetti fisici: le traiettorie dei pianeti — ricorda Dehaene — non sono ellittiche, e la Terra non è perfettamente sferica. La realtà della materia conserva sempre un margine irriducibile di irregolarità, verso cui l’astrazione matematica è insieme approssimata e idealizzante, come un guanto elegante, ma — anche di poco — troppo stretto o troppo largo.
In quanto attività umana, la matematica può solo mediare tra le estensioni di materia «là fuori» (entità, proprietà e relazioni di un mondo senza etichette) e le elaborazioni che avvengono «là dentro», nella coscienza e soprattutto nell’inconscio della nostra materia cerebrale. In questo senso, e solo in questo senso, è lo strumento privilegiato che ci permette di essere «la misura di tutte le cose».