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 2014  marzo 30 Domenica calendario

«LA GENTE CERCA GIOIA E ALLEGRIA MA PER DARLE DEVI AVERLE DENTRO»


«La crisi dei clown? Fellini ne parlava già nel 1970, il suo film si chiudeva con un funerale, eppure siamo ancora qui. Parlerei piuttosto di crisi di talento e di vocazioni. Molti di quelli che si avvicinano a questo mestiere pensano: sono sempre stato divertente, in classe facevo ridere i miei compagni. Niente di più sbagliato: serve tanto studio, bisogna fare molti sacrifici».
David Larible, 56 anni, veronese di Bussolengo, è il clown per antonomasia. Famoso in tutto il mondo, è il terzo pagliaccio di sempre ad aver vinto il Clown d’Oro al festival di Montecarlo, dopo Charlie Rivel e Oleg Popov. Amatissimo da Steven Soderbergh, Tom Cruise, Woody Allen e Jerry Lewis, ha portato i suoi spettacoli garbati ovunque. Già star dello statunitense Ringling Bros and Barnum & Bailey, e poi del Circo di Stato di Mosca, risponde al telefono da Rapperswil, in Svizzera, dove è in tournee con il Circo Knie, nella pausa tra lo spettacolo pomeridiano e quello serale.
Sulla crisi inglese non ha molti riscontri. «È un mercato locale che non conosco bene. Nella mia esperienza, sento ancora un grande amore verso il personaggio che incarno. Noto invece una diffusa improvvisazione nei colleghi più giovani, e questo non va bene. Anche quando incontro i clown da corsia, spiego loro che non bastano un naso rosso e la trombetta per far ridere le persone. Anzi. Non c’è niente di più triste di un uomo truccato da pagliaccio che poi non sa cosa fare. Tanto più quando lo si fa per beneficenza, quando strappare un sorriso a una persona che sta male è ancora più importante, bisogna prepararsi. È come il lavoro del medico: non basta amare il prossimo, devi sapere quale vaccino somministrare in base ai sintomi del paziente».
Nel suo caso, la battuta cambia a seconda del tipo di pubblico. «I bambini hanno una visuale molto semplice, non riescono ad apprezzare una scena troppo raffinata, non ti seguono tre minuti per afferrare la comicità. A loro devi essere immediatamente simpatico». Il clown deve essere camaleontico, capire chi ha davanti e adattarsi alle circostanze. L’ispirazione arriva dalla vita. «Uno dei miei sketch più fortunati è quello in cui trasformo tre spettatori in un soprano, in un tenore e in un baritono e gli faccio eseguire un’opera assurda: l’idea mi era venuta al Metropolitan di New York guardando il Rigoletto. In un altro sketch, rompo tantissimi piatti: anche lì, mi sono ispirato a un cameriere maldestro che al ristorante fece cadere una pila di piatti davanti a me. Il clown è uno specchio distorto nel quale l’essere umano si deve ritrovare: soltanto allora lo spettatore stabilisce una connessione con te».
Settima generazione di una famiglia di tradizione circense, David Larible ammette che uno dei suoi compiti più importanti è far capire a chi lo va a vedere che non è importante prendersi troppo sul serio. «Ho sempre avuto la battuta pronta e la capacità di sdrammatizzare. Ridere di se stessi è un segreto di sopravvivenza. Non amo la volgarità. Ci sono due tipi di risate: quelle ottenute, per esempio, con una barzelletta volgare, ma che poi ti lasciano l’amaro; e quelle belle che ti fanno stare bene. Non è un caso che Totò abbia pronunciato una sola parolaccia in tutta la sua carriera». I mostri sacri, oltre ad Antonio de Curtis, restano Charlie Chaplin e Alberto Sordi. Dei «più giovani», si diverte con Robin Williams e Steve Martins. I Simpson, con il grottesco Krusty il Clown, confessa di non conoscerli tanto. «Non seguo molto la tivù e nelle due puntate che ho visto, quel personaggio non c’era».
Una residenza fissa non può dire di averla. «Vivo nel mondo, non sono mai a casa. La mia giornata tipo prevede prove, interviste, incontri con la gente che mi vuole conoscere, con i bambini diversamente abili: è tutto molto intenso, ma è quello che ho sempre desiderato fare». L’aggiornamento è importante. «Non finisci mai di imparare: puoi essere il più grande clown del mondo, ma se non ti sai guardare intorno come artista sei finito. Invece è fondamentale avere questo desiderio di metterti in discussione, alimentare la ricerca utopica della perfezione: quello che conta davvero non è raggiungerla, ma vedere quanto ti puoi avvicinare».
Ci tiene a sfatare il mito del comico depresso fuori dal palco. «In scena dai quello che sei: se vuoi dare gioia e allegria, devi averle dentro di te». Tuttavia, capita pure a lui, come a tutti, di essere triste. «Quando succede, cerco di fare un esame di coscienza: ho veramente diritto di essere triste, con la vita che ho, che ho avuto e che continuo ad avere?».