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 2014  marzo 30 Domenica calendario

ANKARA E IL SOGNO (DELUSO) DEL NEO IMPERO OTTOMANO


Sembra che negli scorsi giorni il premier turco abbia avuto una conversazione telefonica con Barack Obama per lamentare la cordialità e la benevolenza con cui gli Stati Uniti tratterebbero il suo grande nemico, Fethullah Gülen, «autoesiliato» nelle montagne della Pennsylvania dalla fine degli anni Novanta. Il sospetto di Erdogan è giustificato da una vecchia storia a cui i turchi attribuiscono molta importanza. Quando chiese la carta verde per regolarizzare la presenza in America e meglio gestire le iniziative della sua organizzazione, Gülen si scontrò con il rifiuto dell’Ufficio immigrazione. I suoi avvocati ricorsero in appello e presentarono una documentazione che comprendeva due commendatizie particolarmente favorevoli. La prima era stata scritta da Morton Abramowitz, ambasciatore americano ad Ankara dal 1989 al 1991 e presidente del Carnegie Endowment for International Peace (una delle più antiche e prestigiose istituzioni americane) dal 1991 al 1997. La seconda era di Graham Fuller, buon conoscitore del mondo islamico, funzionario della Cia per vent’anni e vice presidente del National Intelligence Council dal 1986 al 1988. La prima decisione fu revocata e Gülen ebbe la carta verde. Può darsi che gli americani apprezzino la sua attività filantropica. Ma è ancora più probabile che vogliano mantenere buoni rapporti con un uomo che potrebbe avere un ruolo ancora più importante nella Turchia di domani.
Questo investimento, nella prospettiva degli Stati Uniti, è giustificato. La Turchia non è più l’alleato fedele della Guerra Fredda, il Paese in cui la casta militare aveva un rapporto privilegiato con Washington e, in particolare, con il Pentagono. L’amicizia era iniziata nel 1947, quando l’Urss voleva impadronirsi della provincia turca di Kars, ed è stata consolidata dalla brillante partecipazione di una brigata turca alla Guerra di Corea. La Dottrina Truman dissuase i sovietici da qualsiasi tentativo di annessione e l’ingresso della Turchia nella Nato rafforzò i legami fra i due Paesi. Ma il crollo dell’Unione Sovietica, nel dicembre 1991, ha cambiato la carta geografica della regione. La Turchia non era più una postazione avanzata dell’Alleanza Atlantica ai confini con un potenziale nemico. Il Mar Nero non era più, in buona parte, sovietico o filo-sovietico. Improvvisamente i turchi trovarono di fronte al loro Paese i naufraghi di un impero dissolto, terre che avevano fatto parte dell’Impero Ottomano, popoli di cui conoscevano vizi e virtù, comunità cugine come gli azeri, i turkmeni e altre popolazioni dell’Asia centrale. Improvvisamente, grazie alla fine della Guerra Fredda, i responsabili della politica estera turca videro nel loro orizzonte parecchie strade che potevano essere percorse insieme o separatamente. Potevano restare nella Nato e continuare a godere dei buoni rapporti stretti con la maggiore potenza mondiale. Potevano ribadire il loro desiderio dal mondo arabo alla Comunità europea. Potevano creare un’area d’influenza dal «crescente arabo» al Mar Nero, al Caspio e all’Asia centrale.
Per qualche anno cercarono di non fare scelte che potessero pregiudicare la possibilità di giocare su altri tavoli. Ma dopo la vittoria dell’Akp (il partito islamico di Erdogan e Abdullah Gül), le scelte divennero più nette. Un nuovo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu (professore universitario, studioso di politica internazionale) spiegò ai suoi intervistatori che la Turchia voleva essere il cuore di una grande area medio-orientale composta da Paesi prevalentemente musulmani. Quando i suoi interlocutori osservavano che questo disegno era «neo ottomano», Davutoglu rispondeva che la Turchia non aveva ambizioni egemoniche e voleva andare d’accordo con tutti i suoi vicini. La formula «zero problemi» divenne la divisa della nuova politica estera turca. Purtroppo la realtà crea problemi a cui non è sempre possibile rispondere con una stessa formula. Quando gli Stati Uniti chiesero all’amica Turchia di consentire che il corpo di spedizione americano attraversasse il suo territorio per invadere l’Iraq contemporaneamente da sud e da nord, il Parlamento di Ankara respinse la richiesta. Quando il dopoguerra iracheno divenne infinitamente peggio della guerra, il premier Erdogan si schierò con i «martiri» sunniti di Falluja, la Stalingrado irachena che i marines dovettero riconquistare con la forza. E quando un regista fece un film («Iraq la Valle dei lupi») in cui i soldati americani uccidevano iracheni per vendere i loro organi sul mercato internazionale, Erdogan, spesso intollerante se qualcosa non aveva la sua approvazione, lasciò che circolasse liberamente nelle sale cinematografiche del Paese. Più tardi, nel maggio del 2010, permise che una nave della Freedom Flotilla, la Mavi Marmara , salpasse da un porto turco per una dimostrazione di amicizia e assistenza ai palestinese della Striscia di Gaza. La reazione israeliana fu sproporzionata (nove morti di cui otto turchi e uno americano) e Erdogan, qualche mese dopo, ruppe i rapporti con lo Stato ebraico.
Una scelta ancora più netta fu quella che venne fatta dopo lo scoppio delle rivolte arabe. In quegli avvenimenti Erdogan vide un’occasione da cogliere. La Turchia avrebbe sostenuto il popolo in piazza contro i vecchi leader e sarebbe divenuta il tutore dei nuovi regimi, il Paese che avrebbe meglio coniugato, ai loro occhi, l’Islam e lo sviluppo economico, la tradizione e la modernità. Nel settembre 2011 il primo ministro turco visitò tre Paesi dell’Africa del Nord, pronunciò un discorso appassionatamente filo-palestinese di fronte ai convenuti della Lega Araba e redarguì il presidente siriano Bashar Al Assad, colpevole di non avere dato retta ai suoi consigli. Al Cairo, in particolare, fu accolto, secondo la rivista Time , come un «divo del rock». La vittoria della Fratellanza musulmana nelle elezioni parlamentari e l’elezione di Mohamed Morsi alla presidenza della Repubblica egiziana convinsero Erdogan che vi sarebbe stato al Cairo, da quel momento, il migliore degli interlocutori possibili.
Ancora una volta la realtà tradì le speranze del premier turco e del suo ministro degli Esteri. Con una eccezione (la Tunisia, dove il partito Ennhada, una costola della Fratellanza musulmana, ha dato prova di grande buon senso), le future pedine turche del Nord Africa e del Levante non si sono materializzate. La Libia è stata distrutta dagli anglo-franco-americani e ha cessato di essere uno Stato. In Egitto i militari hanno strappato il potere a Morsi con un golpe che Erdogan ha pubblicamente disapprovato; e il governo del Cairo ha reagito espellendo l’ambasciatore turco nel novembre 2013. L’Arabia Saudita è un Paese rigidamente islamico, ma preferisce i militari egiziani alla Fratellanza, con cui ha antiche divergenze, e disapprova quindi la politica turca. La crisi siriana, in cui Erdogan è dalla parte dei resistenti, ha fatto della Turchia una retrovia del conflitto e terra d’asilo per circa 600.000 siriani.
Più recentemente la crisi ucraina ha ulteriormente complicato la politica estera di Erdogan e Davutoglu. Anziché diventare il mare interno di una grande area pacificata e solidale, il Mar Nero è diventato un nido di vipere. Ankara non vuole l’ulteriore disgregazione dell’Ucraina e non può negare una certa protezione ai tatari di Crimea, un popolo musulmano che fu sino alla seconda metà del XVIII secolo un vassallo ottomano. Ma non vuole neppure contestare troppo scopertamente la Russia di Putin. I negoziati con l’Unione Europea continuano, ma con scarsi risultati e diventeranno ancora più laboriosi se Erdogan continuerà ad accentuare il profilo autoritario del suo governo e se la sua politica interna diventerà ancora più illiberale.
Per fortuna, in questo quadro di ostilità scoppiate e latenti, esiste il petrolio, un bene per cui si possono fare le guerre, ma anche, quando conviene, le paci. Il Mar Nero continuerà a essere una via degli idrocarburi e la Turchia un utile passaggio per gasdotti e oleodotti. Cipro e le zone marittime circostanti sembrano destinati a diventare l’El Dorado petrolifero del Mediterraneo. Per partecipare allo sfruttamento dei suoi giacimenti, la Turchia dovrà auspicare la riunificazione dell’isola e migliorare i suoi rapporti con Israele. Vedremo allora se vi siano situazioni in cui pragmatismo, nella politica di Erdogan, possa avere il sopravvento sulla ideologia .

(3 - fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 27 e il 29 marzo)