Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 30/3/2014, 30 marzo 2014
IL «GOLPE» CHE TRAVOLSE IL CAVALIERE (SECONDO TREMONTI)
«Com’è che ancora il 21 luglio 2011 l’intera Europa approvava e senza riserve il programma di bilancio italiano? Così che da Francoforte si titolava: “Merkel: la manovra italiana va bene”. Com’è che monsieur Trichet», allora presidente della Banca centrale Europea, «se ne è stato zitto e muto sull’Italia, in tutti i Consigli europei, compreso quello del 21 luglio 2011, salvo poi agitarsi come un indemoniato, appena pochi giorni dopo? La verità è che di colpo vengono solo i colpi di Stato!».
La parola «colpo di Stato» è abusata. Ma Giulio Tremonti è convinto che ci sia stato davvero un golpe contro l’Italia nell’estate 2011, quella in cui crolla il governo Berlusconi e si prepara la strada al governo Monti. Non un «colpo di Stato» del Quirinale, però. Una manovra del tutto esterna alla politica italiana. Ordita in Europa, tra la Cancelleria di Berlino e i palazzi di Bruxelles. Per far pagare all’Italia il conto delle banche tedesche (e francesi).
È questa la tesi di partenza del nuovo saggio di Giulio Tremonti, Bugie e verità. Le ragioni dei popoli , che Mondadori ha appena mandato in libreria. Nel maggio 2010, quando la crisi della finanza privata e delle banche si manifesta in Europa al suo secondo stadio, come crisi «sovrana» che coinvolge gli Stati, viene messo in cantiere un primo fondo europeo (Efsm). L’Italia è chiamata a contribuirvi per il 18%: la stessa percentuale con cui contribuisce al bilancio Ue, calcolata in base al Pil. Ma il primo fondo si rivela insufficiente. Si comincia a costruirne un secondo (Esm). Ma, scrive Tremonti, l’Italia si dichiara pronta a finanziarlo solo in base all’esposizione del proprio sistema bancario nei confronti degli Stati in crisi: Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo. E l’Italia è esposta solo per il 5%, mentre la Germania lo è per il 42% e la Francia per il 32%. A meno che — sono le condizioni del governo Berlusconi, vale a dire di Tremonti — l’Italia non ottenga in cambio gli eurobond, una forma di solidarietà che consente di «fare debito» in comune e di investire su infrastrutture, opere pubbliche, insomma sviluppo. Di fronte al rifiuto di Berlino, Parigi e Bruxelles, si scatena l’attacco all’Italia, con la lettera della Bce e la tempesta degli spread, che portano alla caduta di Berlusconi e all’avvento di Monti, che accetta la richiesta del 18%. Salvo poi verificare che l’unico argine alla crisi «sovrana» è una nuova politica monetaria della Banca centrale europea, che dal novembre 2011 segue la linea della Federal Reserve americana e comincia a pompare liquidità nel sistema. La dura politica fiscale del governo Monti, però, inasprisce il malcontento popolare, segnalato dalla crescita impetuosa del Movimento 5 Stelle, dichiaratamente antieuropeo, che in un anno passa dal 5 al 25%.
Oggi, scrive l’autore, l’Europa e il mondo sono di fronte a un rischio di nuovo genere. La massa monetaria in circolazione è aumentata di oltre quattro volte dal 2008 a oggi. La «Montagna incantata» del debito continua a crescere. Si sta gonfiando una nuova bolla, anch’essa destinata prima o poi a scoppiare. Un rischio che vale per tutto il mondo globale, ma secondo Tremonti potrebbe avere conseguenze drammatiche in particolare per l’euro. Oggi sarebbe molto difficile, se non impossibile per l’Italia chiamarsi fuori dalla moneta unica. Ma nella contingenza internazionale l’ex ministro vede l’inverarsi dell’allarme che aveva già lanciato (in un’intervista alla Stampa ) alla vigilia dell’introduzione dell’euro, nel Natale 2001: una moneta artificiale, senza un governo comune del fisco e dell’economia, avrebbe causato inflazione e impoverimento, soprattutto in un Paese come il nostro abituato a usare la leva del cambio per colmare il deficit di competitività nei confronti della Germania.
Per spiegare la complessità del caso Italia, Tremonti ricorre a una metafora da film dell’orrore. Cinque camion stracarichi stanno arrivando contemporaneamente sullo stesso, fragile ponte. Il primo è il debito pubblico, la cui esplosione viene addebitata alla solidarietà nazionale del periodo ’76-’79. Il secondo è uno «Stato parallelo» cresciuto con le riforme degli Anni ’90, il decennio del centrosinistra, che hanno «decostruito, privatizzato e mercatizzato, e perciò raddoppiato, lo Stato»; per culminare con il terzo Tir, la riforma del titolo V con la creazione di una burocrazia regionale destinata, in mancanza di una vera riforma federale, non a sostituire ma a sommarsi alla burocrazia statale. Il quarto camion è la forzatura dei tempi e dei modi dell’ingresso dell’Italia nell’euro (con quello che Tremonti definisce un trucco contabile, spiegato nei dettagli). Il quinto Tir è la globalizzazione: che sarebbe un po’ troppo imputare al centrosinistra, ma di fronte alla quale né Roma né Bruxelles hanno saputo levare le barriere necessarie, a cominciare dai dazi in vigore nella patria del libero mercato, gli Stati Uniti.
Di fronte a un disastro totale, Tremonti propone «l’ultimo tentativo». «O l’euro converge sull’Europa, o finisce. E l’Europa è la civiltà, e la civiltà dell’Europa è nella solidarietà tra i suoi popoli». Non fine dell’Europa, quindi, ma «il ritorno della politica», sola condizione per «restituire un futuro all’Europa». Qui Tremonti si distacca nettamente dagli euroscettici, quando dice: «L’unione dell’Europa deve prendere la forma di un’integrazione, quanto più ampia e profonda possibile». Quindi non una mega-burocrazia, ma «integrazione della vita culturale, sociale ed economica, delle tradizioni e delle storie».