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 2014  marzo 31 Lunedì calendario

ARTICOLI IN MORTE DI GERARDO D’AMBROSIO


PIERO COLAPRICO, LA REPUBBLICA 31/3/2014 -
Sulla morte scherzava, come a volte sa fare chi l’ha vista da vicino: «La signora con la falce non mi vuole». Ieri Gerardo D’Ambrosio l’ha attesa con «serenità», in ospedale, accanto alla figlia, e l’ha incontrata a 83 anni. É morto più vecchio di quanto pensasse, ma con la coscienza di avere «il cuore libero». Quel suo cuore trapiantato, del quale era fisicamente «amico», tanto da indicarlo con il dito, dicendo: «È più giovane di me, per questo non sento la fatica».
Tantissimi giornalisti l’hanno intervistato, dagli anni Sessanta a qualche mese fa. Prima nel suo ruolo di magistrato tutto d’un pezzo, e felice di esserlo stato. Poi di senatore che, piano piano, perde l’entusiasmo perché «uagliò, passano mesi, anni, e anche se vuoi combinare qualche cosa, non si muove niente». A volte apriva la sua casa di periferia, casa da vedovo, ordinata e vuota, per parlare in pace, senza il telefono che squillava,
come in ufficio.
Ma per qualsiasi interlocutore era molto difficile mettersi nella prospettiva di chi, come lui, aveva «visto cose che voi umani...», come si prendeva in giro stesso, citando il film Blade Runner. Un altro film, «Gli intoccabili », aveva avuto il manifesto ritoccato da qualche buontempone, ed era finito appeso dietro parecchie porte della procura: c’era il pool Mani pulite, con lui, «zio Gerry», come si osava chiamarlo, al posto di Sean Connery, con il fucile in mano Ci sono vite da film, che però sono talmente ricche, strane, complicate, che un film non diventeranno mai. Basta allineare qualche elemento storico.
Era magistrato a Milano ai tempi della strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969. È lui che metterà in evidenza, prima che l’inchiesta sia strappata via da Milano, la «pista nera», il mix di neo-fascisti e agenti segreti. Sempre lui che indagherà sulla morte di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, entrato in questura vivo e uscito morto, precipitando dalla finestra dell’ufficio politico: «malore attivo», stabilì il perito,
D’Ambrosio sottoscrisse, la scia di polemiche non s’è mai chiusa. I terroristi rossi gli uccideranno il «fratello» di tante indagini, Emilio Alessandrini, del quale a volte parlava e, quando parlava, fuggiva, per non far scorgere le lacrime.
In questa Milano funestata dagli Anni di Piombo, dove spunta l’inchiesta sulla loggia massonica P2 e quella collegata sul crac del banco Ambrosiano, inceppata dalla morte del banchiere Roberto Calvi a Londra, D’Ambrosio — e i colleghi sono concordi — c’è sempre, o in prima persona, o per un consiglio, o per un aiuto. Un magistrato dell’accusa. Un detective. Un uomo onesto, preciso, anche un po’ noioso, quando vuole, quando ci vuole: ed è anche per questo che, poco dopo il trapianto di cuore, quando ancora gira in ufficio con una mascherina verde, dalla quale spuntano occhi furbi e occhiali degni dei Blues Brothers, Francesco Saverio Borrelli lo chiama — è l’inizio del 1992 — a fare il coordinatore del pool Mani Pulite.
Per quante letture «politiche» siano state tentate in questi anni, i fatti restano fatti: Antonio Di Pietro, un ex poliziotto, contadino, ha trovato la crepa nel sistema dei partiti ed è un cavallo solitario; Piercamillo Da-
vigo è un «cervello» giuridico, è sembrato spesso una spalla, ma solo perché non ama i riflettori; Gherardo Colombo, al quale il palazzo di giustizia di Roma, quando era «il porto delle nebbie», ha scippato spesso indagini importanti, ha esperienza, ma s’è stufato. Tre tipi diversissimi. Ma D’Ambrosio non ha lasciato scampo a nessuno, né a Francesco Greco, né a Paolo Ielo, né a Ilda Boccassini, tutti hanno collaborato, anno dopo anno, lasciando inchieste che hanno fatto e cambiato la storia, anche quella con S maiuscola.
«Zio Gerry», tra una battuta e una reprimenda, sapeva far girare la macchina. Quando è diventato lui procuratore capo, ha coronato il sogno: «La città vuole sicurezza, gliela daremo», diceva. E quella stessa forza l’ha portata in Parlamento. Ora bisogna sapere anche agli estranei a volte chiedeva: «Lei sa che cos’è un ghiozzo?». Vagheggiava una pensione con la lenza in mano, nell’amato golfo di Napoli, ma venne raggiunto dalle sirene della politica. I Democratici di sinistra gli offrirono un seggio
al Senato, e lui, che non aveva visto di buon occhio Di Pietro in politica, accettò. Ma, così sosteneva, per una ragione: «Vogliono cambiare la legge sulla corruzione, ma c’è da fare altro, per velocizzare i processi, limitare i ricorsi in Cassazione...». Parlava, immaginava, rivedeva i successi e gli errori
delle inchieste, il dolore delle vittime, e degli imputati: ci credeva, l’ex giudice istruttore, l’ex procuratore capo, e ci metteva il suo cuore donato da un giovane, al quale era sempre grato, da laico. Invece, anno dopo anno, la delusione. E che muoia, mentre forse muore anche il Senato, a chi gli voleva bene, può sembrare simbolico.

MICHELE BRAMBILLA, LA STAMPA 31/3/2014 -
Quando, una ventina abbondante di anni fa, tornò a Palazzo di Giustizia dopo aver subìto un trapianto di cuore, andai a trovarlo nel suo ufficio (ero un cronista di giudiziaria) per chiedergli come si sentisse. «Come un leone», mi rispose, e vedendomi un po’ stupito aggiunse: «Mi hanno messo nel petto il cuore di un ventenne. Sarà per questo, ma mi sento davvero forte come un ventenne». Scherzava sulla propria salute malferma, e dal modo in cui lo faceva si vedeva che stava anche cercando di esorcizzare il dolore che si prova quando ci si sente vivi grazie alla morte di un altro.
Gerardo D’Ambrosio aveva, allora, 60 anni, e il suo cuore precedente aveva già vissuto battaglie da leone. Un’altra ventina di anni prima s’era trovato a indagare su uno dei casi più difficili, e più pericolosi, di quella stagione che sarebbe poi stata chiamata «di piombo». Gli affidarono infatti le indagini sulla morte di Giuseppe Pinelli detto «Pino», l’anarchico precipitato dalla finestra della questura di via Fatebenefratelli, a Milano, la notte del 15 dicembre ’69.
Tre giorni prima c’era stata la strage di piazza Fontana. La polizia, abituata ad avere a che fare con la vecchia «mala» milanese e ancora vergine in materia di terrorismo, non sapeva dove mettere le mani, e le mise in tutti i posti in cui le poteva mettere. In poche ore, a Milano ci fu una colossale retata di estremisti, di destra e di sinistra, e soprattutto di anarchici, i più sospettati. Pinelli era uno di questi anarchici. Lo aveva condotto in questura il capo della squadra politica, un giovane: il commissario Luigi Calabresi, 32 anni appena compiuti. Calabresi non pensava che Pinelli fosse colpevole: ma lo credeva ben informato, soprattutto su certe teste calde che aveva cacciato dal suo circolo anarchico, quello del Ponte della Ghisolfa. Ma Pinelli, tre giorni dopo, precipitò dalla finestra.
Come? Perché? Il questore Marcello Guida disse che si era suicidato, forse sconvolto dalla notizia dell’arresto di Pietro Valpreda, un altro anarchico. Un amplissimo fronte di giornalisti e intellettuali di sinistra (stava nascendo proprio in quel tempo la moda dell’intellettuale di sinistra), invece, non ebbe dubbi: si trattava di omicidio. Pinelli era stato buttato giù. A quale scopo, non lo si capisce. Neppure contava il fatto che il povero Pinelli, quando precipitò nel cortile, era ancora vivo (lo soccorse per primo Aldo Palumbo, un cronista dell’Unità che stazionava lì con i colleghi) e, se avesse avuto la forza di parlare, avrebbe potuto dire: mi hanno buttato giù. Niente. Doveva essere per forza un omicidio. E l’assassino? Naturalmente il commissario Calabresi. «Guida e Calabresi sarete presto appesi», si cominciò a gridare nelle piazze. Lotta Continua fece partire sul suo giornale una violentissima campagna con foto, indirizzi di casa, annunci di «eliminazione di un commissario torturatore e assassino». Dario Fo mandò in scena lo spettacolo «Morte accidentale di un anarchico», nel quale Calabresi era il «dottor Cavalcioni», che interrogava i testimoni mettendoli appunto a cavalcioni di una finestra.
In questo clima il quarantenne D’Ambrosio si trovò a condurre le indagini. Era un uomo di sinistra, e il fronte colpevolista si aspettava, da lui, l’incriminazione di Calabresi. Tanto più che D’Ambrosio era stato uno dei magistrati che aveva permesso alle indagini sulla strage di piazza Fontana, inizialmente indirizzate verso gli anarchici, di virare a destra, sulla cellula veneta di Ordine Nuovo, quella di Freda e Ventura. Insomma un magistrato al di sopra di ogni sospetto. Ma quando, nel 1975 – con Calabresi ormai già ucciso da estremisti di Lotta Continua moralmente spalleggiati da tanti bei nomi della cultura italiana – D’Ambrosio concluse l’inchiesta dicendo che Pinelli non era stato ammazzato, ma era caduto per un malore, su di lui si riversarono le peggiori accuse e i peggiori insulti. Certo l’espressione usata per descrivere quel che era capitato a Pinelli (un «malore attivo»), estrapolata dalla sentenza, poteva far sorridere. Ma alcuni punti fermi erano stati raggiunti. Primo fra tutti che Calabresi non era neppure nella stanza da cui Pinelli era precipitato.
D’Ambrosio, fino a poco tempo prima accusato di essere comunista dai difensori dei terroristi neri, che ne avevano chiesto la ricusazione, era dunque diventato «un fascista». Anni dopo, quando si trovò a dirigere l’inchiesta su Mani Pulite, si prese di nuovo del comunista: dicevano che, da procuratore aggiunto, aveva ostacolato le indagini di un pm, Tiziana Parenti, sulle tangenti del Pci. Insinuazioni di cui lui, in fondo, andava fiero: quando un magistrato è accusato sia da destra che da sinistra, vuol dire che nel suo lavoro non guarda in faccia a nessuno. Lo incontrai l’ultima volta un anno fa. Andammo insieme a un dibattito sul film che Giordana ha dedicato a piazza Fontana, «Romanzo di una strage». Parlò con passione, si accalorò nel contestare la tesi, contenuta nel film, della «doppia bomba». È morto con il grande rimpianto di non aver potuto fare giustizia su quell’orrore.

LUIGI FERRARELLA, CORRIERE DELLO SPORT 31/3/2014
«Per esattamente 45 anni, 6 mesi e 29 giorni in molti hanno cercato di fargli la festa e non ci sono riusciti»: il 28 novembre 2002 lo scherzoso invito dei suoi 80 pm milanesi, alla festa per il suo contemporaneo congedo a 72 anni da procuratore e da magistrato in pensione, coglieva due tratti veri e ricorrenti nell’esperienza di questo magistrato della provincia di Caserta che, da piazza Fontana a Mani pulite, ha rappresentato un pezzo di storia della magistratura.
Il primo è l’aver preso spesso decisioni controvento, nei confronti non solo del potere ma anche dell’opinione pubblica: «Quando depositai la sentenza sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, dicendo che non vi era prova di un coinvolgimento del commissario Calabresi, scrissero che ero fascista; quando rinviai a giudizio Freda e Ventura per piazza Fontana, i difensori addirittura mi ricusarono sostenendo che ero socialista», ricordava spesso il magistrato. Al quale pure i più acerrimi critici riconoscevano l’onestà intellettuale del pm che, giusti o sbagliati che fossero giudicati i risultati del suo lavoro, di certo non se li era fatti dettare dalle sue notorie opzioni culturali di sinistra. Così fu nelle conclusioni dell’inchiesta sulla caduta dell’anarchico Pinelli dalla Questura di Milano nel 1969, quando «l’animo della sinistra era rabbiosissimo, volevano assolutamente che la polizia fosse colpevole e che si concludesse per l’omicidio, ma tutte le risultanze lo escludevano»: convinzione mantenuta negli anni da D’Ambrosio, se mai lamentando che gli si rinfacciasse di continuo un’espressione («malore attivo») in realtà sintesi giornalistica di un passo della sua archiviazione («nel termine malore ricomprendiamo non solo il collasso che si manifesta con la lipotimia, risoluzione del tono muscolare e piegamento degli arti inferiori, ma anche con l’alterazione del “centro di equilibrio” cui non segue perdita del tono muscolare e cui spesso si accompagnano movimenti attivi e scoordinati (c. d. atti di difesa)». E fu così anche in Mani pulite nell’estate 1993 quando l’allora pm Tiziana Parenti, nel 1994 poi eletta in Parlamento con Forza Italia, iscrisse nel registro degli indagati, senza informarne il pool, il tesoriere del Pds Marcello Stefanini per una specifica somma trasferita da un manager della «Ferruzzi» all’ex funzionario pds Primo Greganti, l’uomo del conto «Gabbietta»: somma che D’Ambrosio verificò però essere poi stata da Greganti non girata al Pds, ma usata da Greganti per acquistare in nero un appartamento.
Il secondo tratto di D’Ambrosio, colto da quel biglietto di festa, era la combinazione di una umanità e reale disponibilità all’ascolto pari solo alla vitalità incredibile in un uomo che già 61enne aveva avuto nel 1991 un trapianto di cuore («non c’è momento in cui non pensi alla generosità immensa della sorella del donatore»). Con quella energia che scherzando attribuiva alla «gioventù» del cuore trapiantatogli, D’Ambrosio fece tutta Mani pulite, della cui formazione storica Di Pietro-Colombo-Davigo fu nel 1992-1994 il coordinatore per volontà del procuratore Borrelli, affrontando le bufere dell’inchiesta su Bettino Craxi, poi delle prime indagini su Silvio Berlusconi, quindi l’affondo nel 1996 (era intanto arrivata dalla Sicilia il pm Ilda Boccassini) su un gruppo di magistrati romani corrotti. Procuratore di Milano nel 1999 dopo Borrelli e sino al 2002, dopo la pensione ebbe ancora voglia di impegnarsi pubblicamente, scrivendo il libro-manifesto «La giustizia ingiusta» (Rizzoli) e accettando di provare in politica: senatore del Democratici di sinistra e del Pd nelle legislature 2006 e 2008, esperienza che non l’aveva esaltato.
L’inverno scorso, in ospedale a Milano, nei momenti di disorientamento dovuti alla mascherina dell’ossigeno, dalla sua umanità affiorava talvolta un cruccio: il suicidio a San Vittore nel 1993 del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Proprio D’Ambrosio, che di fronte alla scelta di morte di altri indagati (ma non detenuti) di Mani pulite aveva sempre combattuto le strumentalizzazioni degli avvoltoi, deve non aver mai del tutto sedato quel tarlo. Tanto da far tornare alla mente le sue parole il giorno in cui, nel 2000, a casa si era ucciso un noto medico indagato: «Per rispetto vorrei tacere dinanzi a un cataclisma personale come un suicidio. Ma chi dice che si è ucciso perché sotto processo vuol dire che non dovremmo indagare sui potenti se fragili, ma solo su ladruncoli e spacciatori? Non si può fare, lo vieta l’articolo 3 della Costituzione, tutti uguali davanti alla legge. Provate a mettervi anche nei nostri panni: ormai, ogni volta che un pm inizia una indagine di qualche delicatezza, gli danno tutti addosso, e se poi si uccide un suo indagato è come se automaticamente fosse colpa sua... Ma che cosa dobbiamo fare? Prendere uno psicologo e chiedergli: “Senti, secondo te è fragile o su di lui posso indagare?”».
Luigi Ferrarella