Stefano Cingolani, Linkiesta 30/3/2014, 30 marzo 2014
EUROPA, FINE DELLA DIPENDENZA DA MOSCA
Mettiamo subito le mani avanti: può darsi che la crisi ucraina trovi una soluzione diplomatica (sono cominciati i primi colloqui tra John Kerry e Sergej Viktorovic Lavrov a Parigi); le sanzioni non colpiscono le compagnie petrolifere russe e in ogni caso ci sono grandi multinazionali che se ne infischiano come Total che sta discutendo con Lukoil una joint-venture per sfruttare l’olio da scisti in Russia o Bp che ha stretto già da tempo un’alleanza con Rosneft. Dunque, quella che adesso appare l’anticamera di una crisi energetica provocata dal ritorno della guerra fredda, si può risolvere in modo meno traumatico. Ma in ogni caso, una cosa è certa: l’Europa dovrà affrontare un cambiamento radicale delle sue strategie riducendo in modo drastico la dipendenza dalla Russia. Non è affatto poca cosa, in particolare per Paesi come la Germania e l’Italia in Occidente, o la Polonia e tutti gli altri Paesi alla frontiera orientale. Oggi come oggi non ci sono alternative, nessuno possiede gas a sufficienza per sostituire quello russo. Ma anche per questo è chiaro a tutti che bisogna cominciare adesso. Come e da dove?
Barack Obama nel suo viaggio europeo ha detto che gli Stati Uniti sono pronti a fornire il proprio gas e il proprio petrolio, ha già chiesto al Congresso di far cadere le limitazioni all’export e, grazie anche alla rivoluzione energetica che sta trasformando gli States in una superpotenza anche nella estrazione di idrocarburi (un grande ritorno al ruolo che aveva cent’anni fa), è probabile che cessi l’opposizione a privarsi in parte di una risorsa indispensabile alla sicurezza nazionale. Tuttavia il gas americano può arrivare solo liquefatto e siamo solo all’inizio. Le forniture vengono dalla Louisiana. L’impianto di Cameron ha appena ottenuto il via libera per l’export dal governo, ci sono voluti due anni e deve ricevere l’ok del Congresso. Quello di Sabine entrerà in funzione probabilmente nel 2015. Quanto all’Europa, i principali Paesi dovrebbero costruire molti rigassificatori, impresa ai limiti del possibile in Italia, ma molto ardua anche in altri Paesi come la Germania, dove i movimenti verdi sono molto forti.
C’è un’altra possibilità, adombrata da Renzi nell’incontro con Obama: potenziare il gasdotto del nord Africa e offrire una parte del gas anche alla Germania e ai Paesi dell’Est. L’aumento del flusso è un tormentone che si trascina da una quindicina d’anni, rallentato di fatto dalle scelte geopolitiche compiute dal governo italiano. Il legame con Gazprom, infatti, ha allontanato l’urgenza delle forniture africane. Bisogna dire, tuttavia, che l’Italia ha tenuto aperto il canale meridionale e anche grazie a questa scelta, oggi la crisi con la Russia è grave, ma gestibile.
Il Transmed che fa capo all’Eni e passa per la Tunisia e la Sicilia è stato potenziato. Intanto è partito il progetto il Galsi che attraversa la Sardegna ed è controllato da Edison con Enel, Hera, Snam rete gas (è stato finanziato anche dal programma europeo per la ripresa). La fase finale d’investimento dovrà essere completata quest’anno, ma a questo punto diventa un progetto cruciale. Il caos libico è una continua minaccia per il Greenstream (Eni via Sicilia) mentre il South Stream attraverso il Mar Nero, già avversato dagli Stati Uniti, è in serio pericolo. Il Nord Africa, dunque, diventa più che mai strategico. Associando grandi gruppi e governi di Paesi che hanno bisogno di forniture alternative, è possibile trovare i capitali necessari e trasformare davvero l’Italia in un hub continentale.
I Paesi nord europei saranno sottoposti anche ad altre pressioni. La Germania, la cui dipendenza dalla Russia supera il 30%, dovrà riaprire il discorso nucleare e, nel frattempo, tornerà a bruciare carbone nelle proprie centrali. Ciò vuol dire che Berlino farà pressione per rivedere i limiti molto stringenti alle emissioni di anidride carbonica. Può darsi che questa volta i Paesi del Nord facciano blocco cambiando le scelte europee (non sarebbe la prima volta). Quanto alle fonti rinnovabili, sono già utilizzate in gran quantità, forse persino troppo e con troppi costi per i contribuenti. Tuttavia in questo nuovo scenario è chiaro che i prezzi dell’energia aumenteranno sia per gli utilizzatori finali, famiglie e imprese, sia per i bilanci pubblici.
Un bell’asso intanto esce dalla manica della Francia Paese altamente nuclearizzato che non ha bisogno del gas né di quello russo né di quello algerino (anche se in questo caso sono gli spettri coloniali ad aver dato un vantaggio all’Italia). In concreto i francesi che hanno un sovrappiù di elettricità, cominceranno a venderne in gran quantità (più di quanto non facciano) alla Germania, all’Italia e al Benelux. Se la ripresa prenderà lena, l’export elettrico dalla Francia avrà una importanza strategica.
Dunque, fonti alternative, gas da altre aree fuori dalla Russia, più inquinamento, nuovi impianti, ritorno del nucleare: il dibattito sulle prossime scelte energetiche è già cominciato, mentre i grandi gruppi multinazionali si stanno attrezzando. In Italia, sia l’Eni sia l’Enel sono alla vigilia di una cambiamento dei massimi vertici che fino a questo momento non viene affrontato in un’ottica strategica. Come al solito, è partita la guerra dei nomi che nasconde la logica spartitoria. Renzi ha detto che giudicherà anche in base alle strategie; speriamo che sia davvero così, ma è evidente che il dibattito strategico avrebbe già dovuto occupare le sedi ufficiali e i mass media i quali, invece, si occupano di nomi e schieramenti politici.
Se l’Italia volesse trasformare il negativo in positivo, la crisi in opportunità, dovrebbe avere la fantasia e il coraggio di affrontare la questione dalla testa non dalla coda, cioè dalla politica energetica seguita dalla metà degli anni ’90, vagliando quel che resta valido e quel che deve cambiare con il mutamento dello scenario geopolitico. I vertici delle aziende seguiranno e saranno coerenti con le scelte di fondo compiute dall’azionista di riferimento (che è il governo) coinvolgendo anche i soci privati e quelli istituzionali che all’Eni e all’Enel sono molto rilevanti. C’è chi ci sta pensando, anche per ora se resta in minoranza. Certo, una svolta tanto profonda non si può fare in quattro e quattr’otto e il tempo stringe: le assemblee sono a maggio e bisogna presentare le liste tra un paio di settimane. Tuttavia, di fronte a novità rilevanti sarebbe anche possibile chiedere un rinvio o tenere le nomine in stand-by.
In questo clima, tra gli attori della politica energetica torna a circolare una idea che era spuntata una decina d’anni fa per poi essere riposta nel cassetto: creare un gigante energetico, un vero campione nazionale (ma non statale, anzi) mettendo insieme Eni e Enel. Nascerebbe un gruppo con una capitalizzazione superiore ai cento miliardi di euro con oltre 200 miliardi di fatturato, dentro il quale il governo potrebbe mantenere una quota piccola o solo una golden share, vendendo i suoi due pacchetti e ricavando così un bel gruzzolo per ridurre lo stock del debito pubblico. La nuova entità sarebbe una public company, così grande da diventare non scalabile, senza un padrone o un azionista dominante. L’interesse pubblico verrebbe in ogni caso tutelato dalle direttive di politica energetica e da quelle regolatorie, affidate a un’autorità dell’energia potenziata.
Se ne era parlato a lungo ed era prevalso un approccio diverso che puntava alla specializzazione. Da allora tutto è diverso, la stessa Eni è entrata nell’orto riservato dell’Enel e viceversa. Un matrimonio sarebbe l’occasione per razionalizzare e ristrutturare davvero. Il nuovo gruppo avrebbe un’ampia presenza multinazionale, sarebbe fortissimo in Europa (Italia, Spagna, nella stessa Germania) con la taglia giusta per esercitare la leadership anche in progetti come il gasdotto nord-africano.
Nel 2006 ad opporsi fu Paolo Scaroni da poco passato dall’Enel all’Eni; la definì «un’idea bizzarra e molto poco suggestiva» che non avrebbe creato valore. «La mia missione è aumentare il valore delle azioni», spiegò l’amministratore delegato. Dopo la crisi del 2008 al paradigma del valore (per gli azionisti) se ne sta sostituendo un altro che guarda più al medio periodo; la minaccia di una Guerra fredda 2.0 rende ancor più rilevante il primato degli investimenti strategici e dell’ottica di lungo periodo. La mission è cambiata e la miopia degli anni ruggenti rende la presbiopia una virtù. Anche Romano Prodi, allora presidente del Consiglio, giudicò la proposta “non percorribile”, ma non sbagliata in sé, anche perché veniva dal mondo del centro-sinistra.
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti; anzi dovremmo dire molto gas. Esistono, naturalmente, numerose difficoltà e non si può per semplicismo visionario sottovalutare tutti i diavoli nascosti nei dettagli. Ma quando l’accordo venne prospettato per la prima volta le obiezioni più forti (e vincenti) furono di potere. E non c’è dubbio che ripartirebbe un fitto fuoco di sbarramento. Tra i "lacci e lacciuoli" da sciogliere non ci sono anche quelli dei boiardi di Stato? «Ah se fossimo francesi…», sospira un insider ricordando la fusione tra la privata Total e la pubblica Elf (che nel 1999 era insidiata dall’Eni) o quella tra Suez e Gaz de France nel 2006 per bloccare l’Enel. Politique d’abord, la politica innanzitutto.