Gianfilippo Cuneo*, Milano Finanza 29/3/2014, 29 marzo 2014
ENI: I NUMERI SONO CON SCARONI, IL SOTTOBOSCO ROMANO NO
Che sia iniziata la stagione delle nomine si vede dai siluri che quotidianamente gli aspiranti candidati lanciano indirettamente sui media per cercare di mettere fuori gioco i concorrenti più accreditati. E se questo è vero per tutte le aziende a partecipazione statale, come Enel, Finmeccanica e Terna, lo è in particolare per il tassello più importante, ossia l’Eni, del quale è amministratore delegato Paolo Scaroni. Come sempre, è sempre opportuno distinguere le opinioni dai numeri. Basare la valutazione dei manager sulla performance è sacrosanto e magari fosse più frequente! Non si può però selezionare ad arte solo alcuni fatti per dare l’immagine di una performance scadente e di ombre problematiche. Normalmente gli azionisti responsabili e competenti basano la propria valutazione in funzione della situazione di partenza, del confronto con aziende comparabili e dei vincoli da loro stessi imposti. Chi, come chi scrive, si occupa di investire in aziende guidate da manager o imprenditori, sa quanto sia importante e difficile scegliere le persone giuste in funzione della strategia da perseguire nel business e valutarne l’effettiva performance storica nell’azienda che guidano attualmente o in esperienze precedenti; ma l’analisi approfondita dei fatti permette di superare le difficoltà.
Al suo arrivo in Eni Scaroni era un manager italiano con esperienze al vertice di multinazionali come Saint Gobain, Techint e Pilkinton e un’ottima performance anche in Enel. Era l’unico italiano che era stato amministratore delegato di quattro grandi aziende, di cui tre private e una pubblica, in tre Paesi diversi. Per valutare la gestione Scaroni di Eni è giusto fare riferimento alla performance borsistica dell’azienda dal 2005, da quando ne è diventato amministratore delegato, ma tenendo conto delle eredità negative dell’azienda (come ad esempio i contratti per l’acquisto del gas conclusi dai predecessori) e della debolezza strutturale della chimica e della raffinazione petrolifera in Italia. La performance del titolo Eni in borsa riflette non solo i risultati ottenuti dall’amministratore delegato ma anche quelli specifici dell’Italia; tutti sappiamo che basta scegliere ad arte con chi confrontarsi e spostare di poco l’inizio del periodo di riferimento per ottenere risultati diversi. Gli analisti di borsa sono i giudici più neutri e danno un risultato ponderato positivo. Il fatto incontrovertibile è che dal 2005 a oggi Eni ha battuto gli operatori petroliferi europei in termini di total shareholder return (dividendi più aumento del valore del titolo in borsa) e questo nonostante l’esposizione nei confronti del settore del gas europeo e della raffinazione e chimica italiane, tutte attività perdenti che gli altri operatori non hanno. Il settore del gas europeo è imperniato sui contratti take or pay, validi per decenni, poiché l’estrazione e il trasporto del gas richiedono investimenti colossali. I contratti firmati a cavallo del secolo, in situazioni di scarsità di gas e di preoccupazioni per gli approvvigionamenti, sono diventati palle al piede dal 2005 a causa del crollo della domanda di gas. A Scaroni va il merito di essere stato capace, dal 2007, di rinegoziare al ribasso per ben 4 miliardi di euro l’anno i contratti ereditati (impresa che dagli esperti è stata giudicata un quasi-miracolo). Un altro elemento di critica interessata è il risultato fortemente negativo della chimica in Italia, Paese nel quale è notoriamente impossibile fare chimica a causa del costo dell’energia, della configurazione geografica e di altri fattori: se l’Eni fosse stata un’azienda privata, si sarebbe liberata del business chimico, strutturalmente perdente, come hanno fatto Snia, Hoechst o British Petroleum, ma tutti sappiamo che il governo ha vietato tale operazione per evitare il conseguente fallimento del settore ed è paradossale addossare la responsabilità di tale vincolo costoso all’amministratore delegato dell’Eni, che invece ha avviato un’interessante riconversione verso la chimica verde.
Ma se la performance di gas e chimica è attribuita in toto alla gestione Scaroni, gli ottimi risultati del business di esplorazione e produzione di idrocarburi vengono invece ricondotti, con commenti semplicistici, all’aumento del prezzo del petrolio. È vero che dal 2005 il prezzo del barile di petrolio è raddoppiato ma sono anche raddoppiati i costi (acciaio, energia, risorse umane); un altro esempio di come sia facile criticare dimenticando qualche pezzo importante della fotografia complessiva di un fenomeno. La valutazione negativa che qualche politico o giornalista di parte ha fatto della gestione di Scaroni si applica anche all’aumento dell’indebitamento dell’Eni; un’analisi di questo tipo va corredata con un giudizio sugli investimenti effettuati e sulla crescita degli asset. Nel caso specifico, in dieci anni l’indebitamento dell’Eni è aumentato di 5 miliardi di euro, mentre il patrimonio netto è aumentato di 20 miliardi, il tutto mantenendo un rating superiore a quello dell’Italia. Per quanto riguarda le proposte di una possibile vendita di Saipem che vengono da investitori finanziari esperti, il sottobosco romano, per nulla interessato alla valorizzazione del titolo ma interessato a recuperare sfere di influenza, le bolla come una pessima idea, sperando di recuperare la possibilità di influenzare le decisioni (cioè i contratti) come al bel tempo antico si faceva con la vecchia Snamprogetti. Si è letto anche di un governo straniero inferocito per i ritardi a Kashagan (Kazakistan), un campo che presenta oggettive difficoltà tecniche senza precedenti a causa di un petrolio altamente corrosivo e condizioni ambientali difficili.
La verità è che gli altri operatori petroliferi invidiano la performance dell’Eni, che negli ultimi sei anni è stata capace di scoprire nuovi giacimenti in misura 2,5 volte superiore alla propria produzione, mentre i concorrenti non sono stati capaci di scoprire nuovi giacimenti per compensare almeno in prospettiva la diminuzione della produzione e generano cassa per barile in misura inferiore. Certamente merito della dirigenza Eni, poi ci vuole anche fortuna; ma qualche merito va anche a chi ha gestito l’azienda.
Detto tutto ciò, chi va messo a capo di Eni? In questi giorni si leggono nomi di candidati ex-interni e esterni di ogni sorta, lasciando intuire le fonti d’ispirazione di alcune analisi. Quando un azionista sceglie l’amministratore delegato di una società il primo criterio è trovare quello più in gamba disponibile (all’interno o all’esterno, attuale o nuovo, italiano o internazionale); il secondo è assegnargli obiettivi e pagarlo in base ai risultati. Se ci sono alternative migliori di Scaroni, ben vengano, ma che siano valutate sulla base dei veri risultati ottenuti in passato, tarate per rendere omogeneo il confronto con i concorrenti e certamente non con il metro di giudizio del sottobosco romano. Per una società che ha la grande maggioranza del proprio capitale in borsa è molto più probabile fare le scelte giuste se ci si basa sulle valutazioni degli investitori internazionali e degli analisti di borsa.
*Presidente Synergo sgr