Guido Santevecchi, Corriere della Sera 29/3/2014, 29 marzo 2014
MENO TITOLI DI STATO, PIÙ AZIENDE (EUROPEE) COSÌ PECHINO RIVOLUZIONA IL SUO PORTAFOGLIO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — «Come diciamo in Cina, solo se pianti un bell’albero, sui suoi rami si poseranno fenici d’oro». Wang Yuanlong, capo economista di Guizhou Bank, fa un po’ il poeta quando gli si chiede un giudizio sull’acquisizione da parte della Banca centrale di Pechino del 2,102% di Eni e del 2,071% di Enel. Nella sua visione, Eni ed Enel hanno dei bei rami e la fenice d’oro è l’investimento da 2,1 miliardi di euro, tenendo conto della capitalizzazione di mercato delle due società italiane: 65,2 miliardi quella di petrolio e gas; 38,1 miliardi quella dell’elettricità.
Il dottor Wang (e tutti gli interlocutori con cui abbiamo parlato) non è sorpreso dall’annuncio, spiega che la Cina ha una grande sete di energia e molti progetti di collaborazione e acquisizioni internazionali nel settore. Però gli economisti di Pechino non si aspettavano che, come ha comunicato la Consob, l’investimento fosse a nome della Banca Popolare di Cina, l’istituto centrale, e non del fondo sovrano Cic (China Investment Corporation). Ma subito, ragionando, Wang e i suoi colleghi osservano che i 2,1 miliardi sono stati messi a disposizione dalla Safe (State Administration of Foreign Exchange) che ha in cassa 3.800 miliardi di dollari in valuta straniera ed è controllata dalla Banca centrale.
Huang Weiping, professore alla Università Renmin, spiega che la Cina sta cercando di diversificare i suoi investimenti, anziché puntare solo su dollari, oro, euro e soprattutto titoli del debito pubblico americano. «Purtroppo il governo di Washington fa considerazioni piuttosto restrittive in termini di sicurezza nazionale e sbarra la porta dell’industria ai nostri capitali, gli europei accettano meglio l’interessamento cinese», dice Huang. Perché petrolio ed energia? «Sono settori industriali più stabili, con un rischio limitato rispetto alla manifattura tradizionale, più legata ai cicli economici e dove per rientrare dell’investimento bisogna aspettare», conclude il docente della Renmin.
C’è da aspettarsi che la partecipazione di Pechino in Eni ed Enel cresca in futuro? «Dipende dal mercato, però i due miliardi spesi significano che è stata fatta una valutazione favorevole su rischi e guadagni: ormai in Cina il mercato conta più della politica nel mondo di affari», assicura il capo economista Wang. Buon segno anche che superando la soglia del 2% la Cina sia uscita allo scoperto, adeguandosi alle regole Consob. Però le relazioni politiche contano, quando si parla di grandi aziende pubbliche. Ad aprile sarebbe dovuto venire a Pechino Enrico Letta; il suo governo è caduto e Matteo Renzi arriverà forse a giugno. L’instabilità politica a Roma può essere un problema, avverte Wang, «ma stiamo ai fatti: la nostra Banca centrale ha creduto in queste due grandi società italiane».
L’Eni collabora già con i cinesi in Africa e in Kazakhstan e tratta con loro per una partecipazione nel campo di Zubair in Iraq. Wang Zhen, vicedirettore delle ricerche strategiche presso l’Università di studi petroliferi, sostiene che l’Eni ha attirato l’attenzione per la sua apertura internazionale: «In particolare ci hanno impressionato le sue scoperte in Mozambico, un ottimo lavoro».
Ma si può davvero collaborare con i cinesi in un campo spietato come quello dell’approvvigionamento energetico? Ci ha detto John Downie, senior director della società di consulenza Accenture: «I cinesi sono sorprendenti, fino a ieri concorrenti, domani partner affidabili ».
Guido Santevecchi