Paolo Baroni, La Stampa 29/3/2014, 29 marzo 2014
LA CONCERTAZIONE SALVÒ IL PAESE FUNZIONAVA IN UN’ITALIA CHE NON C’È PIÙ
Dalle stelle alla polvere. Dalla concertazione del 1992-’93, quella con la «C» maiuscola, quella di Amato e Ciampi, con governo, sindacati e imprese, tutti uniti in uno sforzo straordinario per salvare l’Italia dal crack. A oggi. A vent’anni e più di distanza tutto è cambiato.
Per prima cosa quella concertazione non c’è più, semmai si può parlare di consultazione. E poi il sindacato forte, rappresentativo, quello che con Cofferati portava in piazza tre milioni di lavoratori per bloccare l’abolizione dell’articolo 18, è in caduta libera da tempo in tutti i sondaggi. Penultimo posto nel gradimento degli italiani secondo l’ultima indagine Eurispes: fiducia al 19,5%, solo pubblica amministrazione e partiti fanno peggio. Ed è tutto dire. E’ un sindacato che rappresenta «male», sostengono i più critici, gli interessi dei suoi iscritti, essenzialmente tutela solo i tutelati e frena molti dei tentativi di innovazione del Paese. Idem le imprese, a comporre nell’analisi del governatore della Banca d’Italia, assieme alle corporazioni, quella triade di soggetti che ingessa l’Italia. Visco ricorda Carli e riporta in auge i famosi «lacci e lacciuoli» che bloccavano la modernizzazione dell’Italia.
«Imprese, sindacati? Ma è l’Italia stessa che non è capace di riformarsi, è il Paese che si è progressivamente anchilosato, questi soggetti sono solo lo specchio di quello che siamo diventati» segnala lo storico dell’economia Giuseppe Berta.
Oggi Renzi, molto attento a mettersi in sintonia con l’opinione pubblica, si permette di mandare a quel paese Camusso&C. in diretta tv da Fazio e strappa un applauso scrosciante. Manda in soffitta la concertazione o quel che ne resta ed il Paese nemmeno se ne accorge. Solo i diretti interessati (Cgil, Cisl, Uil) protestano, ma poi non approdano a nulla.
«Da quanti anni non si sciopera sul serio in Italia?», ci si sente spesso ripetere. Traduzione: il sindacato, questo sindacato italiano, conta ancora qualcosa? «Sindacati e imprese sono più cose: c’è sindacato e sindacato, e c’è rappresentanza di imprese e rappresentanza d’imprese» tiene a precisare l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. E non è solo questione della Cgil, che oggi come ieri fa muro sulla riforma dei contratti, o della Fiom in guerra perenne con la casa madre e pure con le controparti industriali. O di Confindustria, che fatica sempre più a tenere insieme gli interessi degli ex monopolisti pubblici (Eni, Enel, Fs) con la base vasta di piccole e medie imprese. «Il problema è quando le parti sociali fanno blocco: è allora che scatta la conservazione – dice Sacconi -. La concertazione, come si intendeva negli anni passati, era la volontà necessaria dell’accordo di tutti, che di fatto consegnava potere di veto alle posizioni più conservatrici. Ma è finita da tempo».
Lo spartiacque, se uno spartiacque va indicato, è datato 1998, anno del famoso «patto di Natale» voluto dal governo D’Alema. «Non ve venne fuori nulla - annota Sacconi -. Poi ci si è resi conto che i governi dovevano decidere, nel bene e nel male: e così la riforma Biagi è stata fatta dal governo Berlusconi con tutti senza la Cgil, mentre la riforma Fornero è stata fatta dal governo Monti contro tutti i datori di lavoro. Uno sbaglio secondo me».
«Il problema – spiega Berta – sta tutto nella società italiana, che è demograficamente vecchia. Che spinta all’innovazione ci si può aspettare da un Paese così? E’ questo il nostro vero limite, che si riverbera poi certamente anche nel sindacato: non a caso nella Cgil il baricentro è rappresentato dai pensionati non da altri». Cofferati non crede che sindacati e imprese oggi abbiamo un potere di interdizione sulle scelte del Paese, nè - sostiene - quella di oggi si può più chiamare concertazione. «Quella è un’altra storia. La concertazione, quella vera, è iniziata con Amato nell’estate ’92 e proseguita con Ciampi, al quale andrebbe fatto un monumento per quello che ha fatto in quegli anni. La nostra situazione economica allora era peggiore di quella che l’altr’anno ha prodotto la crisi dalla Grecia, un debito pubblico altissimo ed una inflazione a due cifre. Ci fu il blocco di pensioni e salari, la tassa sui conti correnti e poi la svalutazione del 30% della lira». Ed è la storia a dimostrare che «il sindacato fece la sua parte: Trentin firmò quegli accordi e poi si dimise perché non aveva il mandato». Non solo il sindacato non si mise di traverso», ma se poi ci furono la privatizzazione dei rapporti di lavoro nella Pa ed il superamento dei privilegi degli statali «lo si deve ai sindacati» puntualizza l’ex leader Cgil.
«La concertazione in quella fase prese corpo perché non c’erano più i partiti. Ma l’averla poi ossificata pensando che potesse diventare metodo di governo come si è fatto negli anni seguenti e come si vorrebbe fare oggi è stato un errore», sostiene Berta. «Quello era uno strumento che andava bene per una fase limitata, mentre noi l’abbiamo trascinato oltre i suoi limiti storici». Quanto a Renzi, il premier «ha colto un sintomo e ha capito che il movimentismo spregiudicato del segretario della Fiom Landini, che secondo me non andrà lontano, va nel senso del sindacato-movimento. Mentre Squinzi-Camusso legittimandosi a vicenda non vanno da nessuna parte. Renzi ha capito che il problema è lì, che o si riesce a spezzare questa anchilosi oppure si genera solo un gioco degli specchi tra rappresentanze, che tra l’altro non si sa più bene chi rappresentino».
Detto questo, per Cofferati, sarebbe bene che Renzi ascoltasse le forze sociali, «dovrebbe essere nel suo interesse consultarli quando si decidono misure che toccano gli interessi che rappresentano». Sacconi la chiama «utilità dei corpi sociali»: il governo sente tutti e poi procede. Ed è chiaro che le controparti «non devono avere la presunzione di cambiare il mondo».