Lorenzo Tondo, la Repubblica 29/3/2014, 29 marzo 2014
DAGLI STADI ALLA STRADA, QUEI 30 MILA CALCIATORI IN FILA PER UN LAVORO
REFERENZIATO, bella presenza, automunito ed ex bomber in serie C. Cerca lavoro come commesso, operaio, bracciante”. Qualsiasi cosa pur di tirare a campare. Basta che di mezzo non ci sia più quel pallone sgonfiato dalla crisi. Aumentano i giovani atleti “licenziati” dal calcio: la Figc ne ha contati 30mila nel giro di tre stagioni (dal 2010 al 2013). Spazzati via dagli almanacchi. Come le maglie delle squadre che hanno indossato: radiate dai campionati, ridotte a brandelli dai debiti. In Italia ci sono mille club in meno: 63 quelli radiati in Sicilia in un anno e mezzo, oltre 30 in Veneto, una quarantina in Campania. Qualcuno è rinato con altri nomi, la maggior parte sono perduti, dimenticati. Il risultato di questa crisi è un esercito di disoccupati: se va bene, fanno la fila davanti ai cancelli di fabbriche e cantieri. Se va male, finiscono come Mamadou Sakho.
Lo scorso anno difendeva la porta del Nardò in serie D, in passato quella del Varese in C2. Poi una squalifica, la crisi della società e così il 25enne senegalese è rimasto senza ingaggio. E senza soldi. A gennaio lo hanno arrestato davanti a un supermercato di Galatina, provincia di Lecce: due pacchi di pasta, tre buste di latte, merendine, biscotti, zucchero e caffè, il triste bottino della sua disperata rapina. Finita male.
Stessa sorte capitata al rumeno Luca Carru, centrocampista di appena 20 anni che fu a un passo dall’Empoli. Le cose però sono poi andate in un altro modo: un anno fa, davanti ai giudici di Alessandria, ha patteggiato due anni di reclusione dopo una violenta rapina ai danni di una giovane. Oppure, Enrico Morello: ex difensore che Carlo Ancellotti fece esordire in serie A con il Parma nel 1996. Ha poi indossato altre nove maglie in carriera, costretto a cambiarne quasi una a stagione, a cominciare da quella bianco-azzurra della Spal nel 2003, fallita quello stesso anno sotto la guida di Paolo Fabiano Pagliuso, arrestato per associazione a delinquere. La storia di Morello è continuata nella Reggiana, dichiarata insolvente nel 2005, nella Torres, esclusa dalla C per “ingenti debiti”, nel Messina, iscritto all’asta fallimentare nel 2009, e Lucchese, respinta dalla C a causa di un buco di oltre 7 milioni di euro. Così l’ex difensore lanciato in serie A ha infine smesso di giocare e si è rifugiato con la famiglia in un piccolo paesino dell’Emilia Romagna dove, da disoccupato, oggi si arrangia come può. E del suo passato da calciatore non vuole parlare: «La prego è un capitolo chiuso. Sono alla ricerca di un lavoro stabile».
Come lui Antonio Gulino, detto Nanà, ex centrocampista dai piedi buoni di Foggia, Atletico Catania e Ragusa, tutte squadre poi schiacciate dalla crisi. Meno male che Antonio, 125 goal in carriera, prima di diventare calciatore professionista, si era diplomato all’Istituto alberghiero. «Dopo aver chiuso con il pallone — racconta — ho lavorato come pizzaiolo e cameriere. Oggi faccio il bagnino in una piscina di Sciacca. Quando il calcio ti volta le spalle, devi farti coraggio e trovare la forza di reagire. È andata peggio ad alcuni miei colleghi iscritti da anni all’ufficio collocamento. Qualcuno fa la fila davanti ai cantieri. Il lavoro manca per tutti. Figuriamoci per chi ha trascorso la vita a rincorrere una palla». Lo dice col sorriso di chi sa che è stato bello inseguire quel sogno di cuoio e ricorda ancora: «Contro la Civita Castellana segnai in tuffo, di testa. Un gran bel goal». Perché poi non è semplice accettare quello che si è: figli di un calcio
minore. Qualcuno continua a sfoggiare i resti di un passato sotto i riflettori: orecchini di diamanti, belle mogli, fisici atletici e macchine costose. Poco importa se il conto in banca è scoperto e la moglie è l’unica ad avere uno stipendio. Ne sa qualcosa Jaroslav Sedivec, ex centrocampista ceco, come la stella che lo portò in Italia, Pavel Nedved. Aveva iniziato bene prima di incappare nel fallimento di Perugia e Salernitana. Non prende lo stipendio da tre anni e ha appena rescisso il contratto di un’abitazione a Maccarrese, sul litorale romano. Oggi vive da una zia, con la famiglia. Infine c’è chi, ugualmente tradito dal pallone, diamanti e veline le ha viste solo alla tv. Come Salah Eddine, 27 anni, difensore italomarocchino fino a qualche anno fa in forza al Cianciana, provincia di Agrigento e campionato di Promozione. La retrocessione a causa dei debiti gli ha tolto quei 400 euro al mese che gli garantivano la sopravvivenza. Soldi che Salha ha dovuto rimpiazzare con i proventi di lavoretti saltuari: falegname, imbianchino. O quel che capita.
Equipe Italia, di regione in regione, si occupa dei casi come quelli qui descritti. Nata nel 2006, l’associazione è il frutto di una crisi del settore che moltiplica disoccupati e precari. Per offrire una vetrina ai giocatori senza contratto. «Il primo anno da noi se ne presentarono appena trenta — spiega Antonio Trovato, responsabile dell’Associazione italiana calciatori per la Campania e del locale team di Equipe Italia — oggi davanti ai nostri cancelli ce ne sono più di cento. E saranno ancora di più l’anno prossimo, quando le squadre professionistiche passeranno da 90 a 60. Sono il prodotto della crisi. Di quegli imprenditori che non hanno più i soldi per pagare i loro dipendenti. Figuriamoci quelli da spendere per il pallone». Viaggi in pullman per le trasferte, alloggi in hotel, divise, la quota d’iscrizione alla federazione e naturalmente gli stipendi ai giocatori. Una volta c’erano i Comuni a sostenere il calcio: le piccole squadre locali in Italia ricevevano ingenti finanziamenti dalle amministrazioni, fino al 70 per cento del loro budget stagionale. Con i tagli alle casse delle città, il pallone non può più essere una priorità. Un esempio? Nella stagione 2002-2003 la Nissa di Caltanissetta, che militava nel campionato di Eccellenza, ricevette 70mila euro dal Comune. Lo scorso anno il contributo è sceso a 10mila. Risultato? L’agosto scorso la società comunica di essere stata esclusa dal campionato regionale. Ma è lunga la lista dei club caduti: da Bari ad Ascoli, dalla Triestina al Licata.
Ecco, il Licata. Nel 1992-1993, nel cuore della crisi economica del club tanto caro a Zeman, ci giocava un certo Maurizio Schillaci, cugino del più celebre Totò, eroe delle notti magiche di Italia ‘90. Eppure c’è stato un tempo in cui era Totò “il cugino di Maurizio”, attaccante veloce, tecnico, imprevedibile. Nel 1986 la Lazio lo portò all’Olimpico con un contratto faraonico per la serie B: ingaggio da 500 milioni per 4 anni. Con i soldi —38 automobili cambiate in pochi anni — arrivano però anche i problemi. L’infortunio a un ginocchio mai curato, il fallimento di alcune squadre in cui ha giocato, poi la droga e la parabola disperata che dagli allori del calcio l’ha scaraventato su un treno. In uno dei tanti vagoni abbandonati sui binari morti della stazione di Palermo. È lì che oggi, a 52 anni, vive Maurizio. Insieme a una bottiglia di whisky e qualche dose di eroina. «Con quella però ho smesso», giura. Passa il tempo in strada, a rimediare qualche spicciolo per un pasto e un pacco di sigarette. «Il calcio? — sorride, la faccia scavata dagli effetti del prolungato uso di metadone — Un giorno sei una stella, il giorno dopo vivi in una stalla. Quando capii che la mia carriera stava per finire, iniziai ad aver paura. Paura di quello che mi aspettava. Ma peggio di così non poteva andare». Due arresti, quattro overdose e una famiglia che non ti riconosce più. «Il calcio è strano — dice Maurizio — ma la vita lo è ancora di più».