Alex Saragosa, il venerdì 28/3/2014, 28 marzo 2014
IL PREZZO DEL RITARDO
Come si fa a invocare puntualità in un Paese in cui i treni non rispettano gli orari per definizione, il ritardo è quasi uno status symbol per i potenti e, soprattutto, lo stesso Stato ha portato alla disperazione migliaia di imprese, procrastinando pagamenti per 80 miliardi di euro? Non si sono fatti però scoraggiare dall’«ambiente ostile» il manager Andrea Battista e il paroliere e drammaturgo Massimo Ongaro (Premio Tenco 1987) e hanno scritto L’Elogio della puntualità (Giubilei Regnani editore), un saggio in cui, a un nucleo sul peso economico della nostra cronica mancanza di affidabilità temporale, si affiancano considerazioni filosofiche, aneddoti storici e citazioni letterarie sui concetti di tempo, affidabilità in genere e destino.
«La ragione prima per cui abbiamo scritto questo libro» spiega Battista «è far capire che l’argomento “mancanza di puntualità”, su cui noi italiani spesso facciamo spallucce e battute, è parte non secondaria di quel groviglio di problemi che sta affondando il nostro Paese. Stimando che ogni lavoratore italiano perda in media 10 minuti al giorno per i ritardi altrui, ho calcolato che in un anno si accumula un danno all’economia fra i 22 e i 44 miliardi di euro, come dire fra l’1,4 e il 2,6 per cento del Pil. Purtroppo, se a livello aziendale è facile consigliare ai manager di cominciare loro per primi a rispettare il tempo dei collaboratori, in una situazione come quella nazionale, dove è proprio dall’alto che arriva il cattivo esempio, è più difficile far capire che un miglioramento della situazione potrebbe partire anche da un piccolo sforzo individuale per essere più puntuali».
In realtà il problema non è solo italiano. Da tempo ci si interroga sul perché alcuni popoli – latini, indiani, arabi – tengano la puntualità in una considerazione molto minore rispetto a quella di cui gode presso gli europei del Nord o gli americani. Una spiegazione tentò di darla l’etnografo Edward Teller, negli anni 60: concluse che i popoli del Nord, forse a causa del clima inclemente che non permette ritardi e divagazioni, hanno un concetto «monocronico» del tempo, lo vedono cioè come un bene prezioso, da impiegare con efficienza. Nasce quindi in quelle culture il concetto di puntualità come virtù, reso via via più stringente dal perfezionamento degli orologi, che si è poi rivelato un vantaggio per l’efficienza delle società industriali. I mediterranei invece, secondo Teller, hanno un concetto «policronico» del tempo, lo considerano cioè flessibile, pensano che possa essere tirato, compresso e anche perso, per fare più cose contemporaneamente. Essere puntuali, in questa ottica, è meno importante che seguire l’estro del momento.
«In certi contesti la cosa è meno irrazionale di quanto sembri» dice Sergio Benvenuto, psicologo dell’Istituto di scienze e tecnologie cognitive del Cnr. «Nelle società del Meridione, per esempio, tutto ruota intorno ai rapporti umani: più è estesa la rete di conoscenze più è facile vivere. Quindi è meglio perdere un’ora per la strada parlando con un amico, a scapito magari di un appuntamento di lavoro, piuttosto che lasciarlo bruscamente rischiando di offenderlo, per essere puntuale con uno “sconosciuto”». Inoltre, secondo un gruppo di sociologi svedesi diretti da Jörgen Weibull che hanno analizzato vantaggi e svantaggi dell’essere puntuali in varie nazioni, quando è quasi certo che gli altri non saranno puntuali, lo sforzo di arrivare in tempo non paga. In altre parole nelle società in cui la mancanza di puntualità è tollerata conviene arrivare, come tutti, in ritardo, piuttosto che dare il buon esempio.
Uno studio di qualche anno fa diretto dallo psicologo Mitja Back, dell’Università di Lipsia, non ha trovato differenze di genere e di età nell’essere puntuali, ma ha dimostrato che è più puntuale chi ha una personalità coscienziosa o amichevole. Battista e Ongaro, nel libro, individuano invece quattro tipi umani correlati alla puntualità: l’ossessivo (che ha capacità organizzative e motivazione e arriva sempre puntuale), il sistematico (che vorrebbe arrivare sempre in orario, ma non riesce a organizzarsi), l’indifferente (che potrebbe arrivare in orario, ma non se ne cura) e il cialtrone (che non arriverà mai in orario, perché non ha né motivazione né organizzazione). «L’ideale però è quello che abbiamo chiamato nel libro l’“equilibrato”, cioè uno che vuole e fa di tutto per essere puntuale, ma ha anche la ragionevolezza di perdonare a sé stesso e agli altri eventuali ritardi, se giustificati. Per esempio, parlando della mia esperienza, le madri che lavorano hanno un tale carico di impegni che non posso pretendere da loro la costante puntualità che richiedo invece a un giovane single».
Fra l’altro, da un punto di vista medico l’ansia di arrivare sempre in orario non sembra essere salutare. È infatti tipica di quelle che i cardiologi chiamano «personalità di tipo A», più soggette della media a infarti e ictus. E, in fondo, a «remare contro» la puntualità svizzera è anche la società digitale: con i suoi multitasking, social network e l’essere sempre connessi, sta trasformando il concetto di tempo della società industriale in senso mediterraneo, intrecciando gli orari dedicati a lavoro, svago e relazioni interpersonali e fornendo sia i mezzi per lavorare ovunque mentre si attendono gli altri, che quelli per avvertire dei ritardi.
L’estrema puntualità può essere un sintomo di problemi comportamentali. «È tipica» spiega Benvenuto «di chi ha un disturbo ossessivo-compulsivo e trasforma la sua vita in una continua, precisa routine. Chi ne soffre può anche avere dei vantaggi, per esempio la si ritrova spesso in chi dirige settori come la contabilità, ma non rende certo felici. Anche una costante mancanza di puntualità, però, può essere un sintomo, per esempio di una personalità narcisista, concentrata solo su sé stessa».
E quando la mancanza di puntualità si spinge al massimo, e saltiamo addirittura gli appuntamenti? «In questo caso» spiega la docente di psicologia della Sapienza di Roma della Arnaud Rossi «il problema risiede nella “memoria prospettica”, quella che, ricordandoci impegni presi in passato, ci aiuta a organizzare il futuro. Sappiamo che questa sorta di “agenda interna” può funzionare male per tre motivi: se non si presta la dovuta attenzione nel momento in cui si memorizza un impegno, se passa troppo tempo fra memorizzazione e momento dell’esecuzione e se il ricordo dell’impegno non è ben collegato al contesto in cui dovrà riemergere. Per esempio, se da casa fissiamo un appuntamento dal dentista dopo l’ufficio, potrebbe essere utile associare al ricordo l’immagine di un collega di lavoro che si lamenta del mal di denti, per essere sicuri che, quando vedremo il collega, ci ricorderemo anche dell’impegno. Senza questi “ganci mnemonici” visuali ed emotivi, infatti, spesso la routine tende a farci dimenticare gli impegni inusuali». Poi, naturalmente, esistono le agende, di carta o elettroniche che siano...
Alex Saragosa