Marco Cicala, il venerdì 28/3/2014, 28 marzo 2014
IL GIOCO DEGLI OCCHI
QUINCY (FRANCIA). Rimugina, corruga la fronte, rovescia gli occhi al soffitto, si impugna il mento, si fruga nella mente a caccia d’una risposta il più possibile esatta. Che spesso è: «Non lo so». O anche: «Devo pensarci su». Spremute al silenzio, le frasi di John Berger sono di distillata precisione. Non che sia un tipo taciturno, oracolare. Ma nelle interviste, come in tutto quanto il resto, detesta l’approssimazione. Da un mucchio di tempo va ripetendo : «Non ho nessuna facilità con le parole. Direi quasi di non avere nessun talento per le parole». Sarà. Però non smette di scrivere libri fenomenali, incatalogabili, epifanici. L’ultimo è un palinsesto di testi e disegni. E un dialogo con Spinoza. S’intitola Il taccuino di Bento (Neri Pozza), dato che così veniva chiamato in famiglia Baruch, figlio d’immigrati portoghesi, ebreo ribelle, filosofo ostracizzato e gigantesco nella tempestosa Olanda del secolo 17.
Perché ripartire proprio da lui? «Perché Spinoza rifiuta il dualismo cartesiano fra spirito e materia. Anch’io non ci ho mai creduto». L’intera avventura intellettuale di Berger si snoda nel rigetto della ragion dualistica; della separazione tra esperienze, genti, forme, saperi, generi letterari. Romanziere, critico d’arte finissimo, saggista politico, sceneggiatore, documentarista, disegnatore, poeta... Lui è stato ed è tutto questo. Uno che insegne correlazioni fra cose disparate fino a leggerle come declinazioni di un’unica totalità vivente.
Un buffone di Velázquez; un golf da bebé lavorato a maglia; una piccola biblioteca municipale dove entrambe le copie dei Fratelli Karamazov sono state prese in prestito; un grappolo di mirtilli; lo scambio di regali con un’anziana coppia di fuoriusciti cambogiani avvicinata in una piscina comunale; una malmessa natura morta scovata da un rigattiere nella Mosca postsovietica e riportata cocciutamente in vita; un rude vigilante alla National Gallery di Londra; un tetro hard discount per nuovi poveri o vecchi ceti medi declassati... Che diamine può legare roba tanto diversa? Eppure nel taccuino tout se tient. Fuso con gli schizzi a inchiostro, carboncino, acquerello e saliva, pastelli marca Giotto di quelli che i bambini usano a scuola. «Disegnando, parti da te» dice, «ma lo sforzo è diventare ciò che stai guardando. Cogliere il collegamento tra la cosa che hai davanti e quelle intorno, che non si vedono. È una forma di contemplazione manuale». Detta così può sembrare una faccenda fumosa. Non lo è. Berger ne condensa il pathos in un esempio: una volta stava disegnando un iris. E più la disegnava più la pianta gli evocava qualcos’altro. Scavò nei ricordi visivi. Sfogliò cataloghi e materiale iconografico. Finché, eureka. «Guardi qua». Sul tavolo accosta l’iris disegnato e la foto di una danzatrice di flamenco. Il fiore e gli svolazzi dell’abito sono pressoché identici. «È anche questo che intendo quando parlo di legame tra le cose».
A 87 anni John Berger ha messo su una faccia di profondità beckettiana. Porta un pile senza maniche sulla camicia contadina. Ha mani da taglialegna. Incrociandolo per strada, non lo distingueresti da uno dei montanari di Quincy, microborgo dell’Alta Savoia dove lui piazzò le tende quarant’anni orsono. «Il numero delle vite che entrano nella nostra è incalcolabile». Può sembrare strano che a scrivere frasi del genere sia uno che ha deciso di rintanarsi in un posto di ottanta abitanti. Però Berger non ha nulla dell’eremita. Da Quincy si sposta spesso. Poi torna. Per concentrarsi. Discutere coi compaesani. Su tutto. Vacche incluse: «II mio vicino ne ha quindici. Vada a vederle, prima che vengano trasferite. Lui è in ospedale. Molto malato. Non ha trovato nessuno che potesse occuparsi delle mucche a tempo pieno».
Vive tra i muri di pietra di una tozza fattoria alpina tirata su a fine Ottocento. Fuori, in letargo stagionale, sta impacchettata dentro un telo la fedele Honda Cbr 1100 Blackbird. All’interno, la casa è un bric-à-brac da atelier d’artista. Ciotole, pennelli, flaconi, cataloghi, una foto di Simone Weil, una del Crocifisso di Velázquez, un bodegon di Zurbarán in cartolina. Discorriamo al tavolo della cucina. Che sembra rimasta ferma a un’altra epoca. Non saprei dirvi esattamente quale. Di sicuro paleo-industriale. «Non sono venuto quassù per ritirarmi, ma per imparare» ricorda. Imparare cosa? «La vita di chi viveva con poco: un pezzetto di terra. Tendiamo a dimenticarcelo, ma nel mondo la maggior parte della gente vive così. Fino agli anni 50, questa era una regione povera rispetto agli standard francesi. Per me che non l’ho mai frequentata, questo posto è stato l’università».
È nato a Londra nel 1926. Il nonno paterno era un ebreo triestino di origini galiziane trasferitesi in Inghilterra per commercio. «Ho cominciato scrivendo pezzi per New Statesman e The Tribune. A quei tempi lo dirigeva Orwell». George? «Lui». Che tipo era? «Antiautoritario. Ma severo. Correggeva parecchio. Che vuol dire questa frase? Spieghi meglio. Chiarisca». Forse viene anche da lì l’allergia di JB all’imprecisione. «Eliminare il più possibile l’ambiguità. Arrivare, per quanto concesso, a una lucidità» dice stringendosi nel pile. Faticaccia. Berger si accapiglia con le parole sin da ragazzo. Da allora, ha molto visto, viaggiato. Ma la colluttazione continua. Prende appunti? «No, però riscrivo tanto. Quattro, cinque, sei, otto volte». Più che romanziere, si considera storyteller, narratore, uno che acchiappa storie, le mette in forma per restituirle a chi legge: «Ti chiedono: Che cosa ti ha ispirato? Ma niente! Un narratore non inventa nulla. Ascolta. Tutte le storie gli sono date». Il narratore è un passeur, che cerca valichi, forando frontiere, facendo il pendolare tra linguaggi per convenzione divisi.
John Berger ha raccontato che la lettura di Joyce gli scoppiò in faccia come una folgorazione: «Fu lui a farmi capire che la letteratura non ha niente a che vedere con le gerarchie, e che separare i fatti dall’immaginazione, l’evento dal sentimento, il protagonista dal narratore, vuol dire restare a terra, non prendere mai il mare». Da quando scrive, Berger cerca il mitico passaggio a Nord-Ovest che rimetta in comunicazione romanzo, saggismo, cinema, pittura, critica, poesia, fotografia... Nel tempo, questa sua impresa ha incuriosito fino all’ammirazione gente come Salman Rushdie, Geoff Dyer, Arundhati Roy, Colum McCann, Michael Ondaatje... Susan Sontag disse di lui: «Amo i libri di Berger. Scrive di cose importanti, non solamente interessanti».
Nelle vecchie scuole di filosofia ti insegnavano che il contrario di dualismo si pronuncia monismo. E significa all’incirca «dottrina che tenda alla riduzione della pluralità degli esseri a un unico principio, a un’unica sostanza». In questo senso, John Berger assomiglia a un monista. Ma per niente ironico, pacificato. Essendo passato da Marx (che, guarda caso, «indicava in Spinoza il suo filosofo preferito»), non ha mai dribblato la dimensione del conflitto. Epperò, per quanto, dalla Palestina al Chiapas, si sia investito nella pugna, non è detto che lo si possa tranquillamente rubricare nella logora agenda degli scrittori engagé. Perché in lui l’idea dell’intellettuale messianico si ridimensiona in più ragionevoli propositi: «Lo storytelling non cambia il mondo» ha detto, «ci sono altre azioni e attività che lo fanno. Non appena si comincia a pensare alle storie come ad armi o strumenti, quelle ti si rivoltano contro». Se la crudeltà si innesca nell’istante in cui nella nostra testa tiriamo una linea tra «un Noi e un Loro», tutto ciò che un narratore può fare è «identificarsi con persone diverse da noi, non trasformarle in un Loro».
Nel Taccuino, Berger riprende una categoria politica che credevamo estinta: quella di tirannia. Ma, applicandola al famoso «capitalismo speculativo-finanziario», è obbligato a imprimerle, non senza difficoltà, una curvatura paradossale. Giacché, «i nuovi tiranni non hanno volto, corpo, territorio». Ecco, appunto: se non sono che frontmen di reti, processi, flussi di valore capitalistico, insomma se il Potere si è nebulizzato, contro chi scendi in piazza? Berger sorride: «Già, ma vede, protestare è un modo di preservare il presente, il momento vivente. Non farlo sarebbe un affronto a se stessi, alla tua identità, al tuo amor proprio». E non si pensi solo alle forme più squillanti e mediatizzate di dissenso: «Puoi protestare anche ritirandoti, vivendo in modo il più possibile autonomo ai margini dell’economia mercantile».
Qualcuno ha scritto che nel peculiare marxismo di Berger «la lotta di classe, l’arte, la poesia e l’esperienza dell’amore sono esattamente la stessa cosa». Ma il suo marxismo eretico lo capisci anche da quell’aneddoto del 1969. «Con architetti e intellettuali di un’associazione anglo-sovietica, mi imbarcai su una nave diretta da Londra a Leningrado. Loro stavano per visitare il museo dell’Ermitage. E a bordo, ogni sera, io gli spiegavo un quadro. Una volta però, invece che di arte, parlai dell’invasione russa a Praga, l’estate precedente. L’uomo del Kgb che ci seguiva mi lasciò finire. Più tardi mi avvicinò al bar con un sorriso di circostanza: E se parlassimo adesso dei tuoi amichetti trotskysti?...».
Sul guardare; Modi di vedere; Questioni di sguardi... Non lasciatevi infinocchiare dai titoli: i libri più celebri di Berger non sono lambiccate riflessioni sulla percezione. Si inoltrano invece in quel terreno minato ed eminentemente politico che è lo sguardo nell’epoca del vedere imperativo, dove la massima congestione di immagini fabbricate/consumate cospira con l’accecamento. Leggere Berger è una terapia riabilitativa per l’occhio. Sia esso puntato su una tela di Caravaggio o su quanto tutti i giorni ci sta semplicemente, ma non meno oscuramente, davanti: una piscina comunale, il maglione di tua nipote, un fioraio.
Una volta lui ha detto: «Di solito la vita è l’esatto contrario di qualsiasi attività creativa, pittura o scrittura che sia, la vita è una cospirazione totale e continua contro la creatività, lo sappiamo bene, e per questo dobbiamo lottare tutto il tempo. Ci sono però dei momenti in cui la vita ci viene in aiuto (impossibile sapere quando succederà) e allora è stupefacente, perché continui a fare le cose di tutti i giorni, vai a fare la spesa, osservi la persona seduta di fronte a te in metropolitana, ed ecco che quel dettaglio all’apparenza insignificante parla e fornisce un’idea, un’immagine, un colore o un’intera sequenza di cose alla storia. Capita, no?».
Anche se non ti reputi un tipo particolarmente creativo, e magari te ne strafotti della creatività, quando sei in coda alla posta ripensi a considerazioni del genere e tutto diventa d’incanto meno atroce.
Marco Cicala