Michele Serra, Vanity Fair 26/3/2014, 26 marzo 2014
Del Festival di Sanremo io sono un reperto vivente. Ne ho fatti una decina come giornalista; due (’89 e ’90) come autore di Beppe Grillo; infine due – gli ultimi due – come artefice del Festival medesimo, nel gruppo di lavoro di Fabio Fazio
Del Festival di Sanremo io sono un reperto vivente. Ne ho fatti una decina come giornalista; due (’89 e ’90) come autore di Beppe Grillo; infine due – gli ultimi due – come artefice del Festival medesimo, nel gruppo di lavoro di Fabio Fazio. Mi mancherebbe, per chiudere il cerchio, farne un paio da cantante, e non è escluso che sotto pseudonimo, e mascherato da Bloody Beetroots, mi presenti su quel famigerato palcoscenico con l’eventuale ausilio di una protesi all’anca, e con l’obiettivo (nascosto nel fondo di ciascuno di noi) di sputtanarmi in maniera irrimediabile. Di questa lunga pratica sanremese, divertente come poche, faticosa come nessuna, serbo un ricordo grato e stordente. Entrambi i sentimenti – la gratitudine, lo stordimento – discendono dall’esserne sempre uscito vivo per miracolo. Come i luna park dei film catastrofisti, Sanremo è un’immane impalcatura mediatica, tanto ridondante quanto fragile, in perenne bilico tra il collasso e il disonore. Da qualunque punto lo si veda e in qualsiasi ruolo lo si viva, è tutto talmente sovradimensionato da non suggerire altra reazione che una fuga atterrita. Più di venti ore di diretta televisiva in cinque giorni, centinaia di ore di trasmissioni-parassita su tutte le reti, due smisurate sale stampa per contenere più di mille (!!!) giornalisti accreditati, carovane di camion e chilometri di cavi che trasformano la città nel più grande insaccato elettronico del mondo, migliaia tra tecnici, personale della Rai, addetti alla sicurezza, discografici, cantanti, impresari, agenti, parenti, serpenti, infiltrati, figuranti (quest’anno di fianco all’Ariston si è tenuto il primo, sublime «raduno nazionale dei sosia»...). Una bolgia mai vista, con la gittata mediatica di un G8, la pompa formale di un Royal Wedding, il budget di un film di Bollywood con elefanti e contorsioniste, la nevrastenia devastante di chi si sente appeso a un punto di share in più e di chi accende ceri per un punto di share in meno sperando nella rovina altrui, magari per fregare il posto al rovinato. Ammesso che questo sia un Paese in grado di recuperare il proprio benessere mentale, è ovvio immaginare che il Festival possa essere una delle più eccellenti cavie per sperimentare la decrescita felice. Tanto è gonfio, e incancrenito in questa sua smodatezza, quanto più rasserenante sarebbe vederlo ridimensionato (non morto, ma più piccino, più sobrio, più in armonia con il rattrappirsi dell’Impero, con il disfarsi del Grande Bagordo che ci ha portati fin qui). Ridimensionarsi, cioè ridisegnare la propria vita, come a tutti noi che viviamo di comunicazione e di spettacolo toccherà di fare. Perde pubblico la Tv generalista, perde pubblico la carta stampata, perdono lettori i libri e clienti le librerie, perdono spettatori il teatro e il cinema, perde mercato la pubblicità. Piuttosto che ragionare su questo inevitabile passaggio che attende solo la sua serena accettazione, ci si azzuffa, come i capponi di Renzo. Scena riassuntiva e memorabile del mio ultimo (least and last) Sanremo, le conferenze stampa del mattino dopo, quando Fazio doveva dare conto di perché e di come aveva perduto il confronto con se stesso (lo scorso anno il suo-nostro Sanremo fece il record di ascolti, quest’anno abbiamo perduto 5 punti di share). Giornalisti di quotidiani che perdono ogni anno il 10 per cento dei loro lettori lo accusavano, gongolanti, di aver perduto share, mentre il direttore di Raiuno Leone cercava di quantificare la perdita di pubblicità. Tutti in quella sala, nessuno escluso, stavamo perdendo qualcosa, ma nessun mezzo gaudio scaturiva dal mal comune. Piuttosto un’acredine diffusa, un malanimo acido, e più acido quanto più il suo latore era sull’orlo dell’insuccesso. Inviati di giornali a rischio di chiusura attaccavano Fazio e Littizzetto a testa bassa, come se non sapessero che Fazio e Littizzetto perderanno il posto, quando e se lo perderanno, dopo che loro lo avranno già perso. Tristi momenti. Decrescita infelice. Sanremo adieu, e a mai più rivederci.