Omero Ciai, la Repubblica 28/3/2014, 28 marzo 2014
L’ALTRA RIVOLUZIONE DEI RAGAZZI DI CARACAS
«SIAMO qui, compagni, ginocchia a terra per difendere la rivoluzione. Chávez, Chávez. Patria, patria». La piazza grida: «Facciamola finita con gli squallidi». Gli «escualidos », nel linguaggio degli eredi politici del leader della rivoluzione bolivariana morto il 5 marzo di un anno fa, sono gli altri, gli oppositori, gli studenti in rivolta, definiti di volta in volta «lacché dell’Impero» (gli Stati Uniti), «piccoli Yankee», «traditori della nazione socialista». Il presidente Maduro ha chiamato il suo popolo per festeggiare i vent’anni dall’uscita dal carcere, nell’aprile del 1994, dell’allora tenente Chávez dopo il fallito tentativo di colpo di Stato di due anni prima. La retorica si spreca, la gente è tanta. Gli impiegati dello Stato e quelli di Pdvsa — la holding pubblica del petrolio — hanno avuto la mezza giornata libera in cambio di partecipare all’atto. Decine di pullman governativi hanno trascinato fin qui centinaia di militanti dalle zone più lontane della metropoli Caracas e da altre città del paese. Picnic gratis a base di panini. Tutti, dai ministri in giù, vestono magliette rosse un po’ scolorite, simbolo dell’appartenza alla rivoluzione. Qualche chilometro più in là, lungo l’autostrada, duemila universitari, che volevano alzare barricate, vengono pestati dagli agenti della Guardia nazionale. I militari sembrano Robocop senza volto, con la corazza di ferro squamata.
In centro, nella piazza di Chacaíto, il quartiere che è diventato ormai lo spartiacque fra le due mezze mele di Caracas, le zone di classe media e le borgate, s’è riunita l’opposizione. C’è Maria Corina Machado, la deputata più votata nel 2010, destituita d’imperio dal presidente del Parlamento perché è andata ad una riunione internazionale a denunciare le violazioni dei diritti umani. Maria Corina, una bella e appassionata signora di 47 anni, è appena tornata da Lima e arringa dal piccolo palco contro l’illegalità della sua cacciata dalla Camera dei deputati. Anche qui la folla è tanta, cambiano solo i colori delle magliette che sono il giallo, il rosso e il blu della bandiera nazionale. La leadership, sempre più forte, di Maria Corina, è il segnale della spaccatura dentro l’opposizione fra chi, come Capriles, l’ex candidato presidenziale sconfitto per un pugno di voti un anno fa da Maduro, difende una posizione più morbida, e chi ha già scelto la piazza per dirimere in uno scontro finale vittoria o sconfitta della battaglia politica.
Due mesi di rivolte, quaranta morti, duemila arresti, perquisizioni illegali nelle case dei leader studenteschi, denunce di torture in carcere, e uno scivolamento progressivo verso metodi dittatoriali che hanno seriamente sfigurato l’immagine all’estero del successore di Chávez. «Inflazione al 56%, carestia, censura, corruzione, repressione. Non basta?», dice David Smolansky, il giovane sindaco di el Hatillo, un comune residenziale a sud est di Caracas. «Le proteste — aggiunge — nascono dalla situazione drammatica nella quale si trova il Venezuela. Le prime elezioni sono fra due anni, ma la tragedia è in corso oggi e adesso: non ci restava altra soluzione che scendere in strada. Non possiamo arrenderci». Smolansky ha 29 anni e un faccione rotondo ornato dalla barba. È stato eletto quattro mesi fa e ora, come molti dei sindaci che hanno appoggiato gli studenti, rischia di essere dimesso d’autorità con un artificio giuridico. È successo al sindaco di San Cristobal, Daniel Ceballos, arrestato, condannato a un anno di carcere, e destituito dal governo per offesa al Tribunale che gli aveva ordinato di buttare giù le barricate e garantire la circolazione per le strade.
Lo scenario accennato da Smolansky non è esagerato, lo Stato ha debiti da tutte le parti. Con gli importatori che non riescono più a far fronte alla domanda di generi alimentari di base (il Venezuela importa quasi tutto). Con le aziende nazionali che si fermano perché senza materie prime. Con le compagnie aeree internazionali, che hanno ridotto i voli e pretendono quasi 4 miliardi di dollari inevasi dall’anno scorso. Anche la censura informativa è ferrea. Con le minacce o con le lusinghe il governo ha ridotto al silenzio tutti i canali televisivi. Alcuni li ha comprati, altri li ha chiusi. E oggi per una tv trasmettere in diretta gli scontri fra studenti e polizia può costare carissimo. Anche un processo per «offesa alla Patria». E il ritiro della licenza. Con i giornali, Maduro ha messo in gioco un’altra tattica: li lascia senza carta perché è una importazione «non prioritaria». Il vero intrigo dietro a questo disastro economico è il sistema di cambio fisso in vigore dal 2003. Ufficialmente il dollaro, ossia la valuta che si usa per pagare le importazioni, vale 6,3 bolivares, la moneta locale. Ma è un valore di fantasia. In realtà il rapporto fra le due monete è almeno dieci volte superiore. L’unico a vendere dollari a quel valore largamente sottostimato è lo Stato cui tutti devono ricorrere e che decide chi è il fortunato e chi no. È il motivo per cui le aziende giornalistiche senza carta sono alla canna del gas: importare carta ad un prezzo del dollaro non calmierato è un suicidio pari a rimanerne senza. Lo stesso per le compagnie aeree, costrette a vendere biglietti in bolivar a prezzi irrisori per il cambio fisso irreale, che attendono dallo Stato il risarcimento promesso delle perdite.
L’economista Tamara Herrera descrive lo scenario dell’implosione. «Nel 2013 il governo si è trovato in una grave crisi di liquidità in valuta perché negli anni precedenti sono stati spesi molti più soldi di quelli che c’erano. La produzione di greggio è diminuita e il deficit di bilancio è schizzato al 18 percento. L’unica via d’uscita è fare altri debiti sul mercato internazionale ». Con chi? Con la Cina che da tempo compra una parte importante del petrolio venezuelano. Ma fino a quando? Ormai, ad ammettere angosciose difficoltà nella carenza di generi alimentari è perfino Maduro. Martedì entrerà in vigore la tessera di razionamento per quelli che acquistano prodotti a prezzi controllati negli spacci del governo, soprattutto nelle borgate. È un colpo che il presidente avrebbe volentieri evitato visto che ferisce la sua gente. Maduro si difende con «il complotto internazionale», «l’opposizione traditrice» che viene accusata di tutto, da un piano segreto per «avvelenare l’acqua potabile » ai sabotaggi che causano i frequenti black-out della luce. Per le strade si parla anche di golpe. Di un intervento militare per riorganizzare il Paese dopo i disastri della politica e sciogliere il confronto fra le due metà non più riconciliabili del Venezuela che rischia solo di sprofondare nel caos. Molti l’appoggerebbero e non sarebbe, in queste latitudini, nulla di nuovo.
Yeikee ha vent’anni e studia amministrazione grazie ad una borsa di studio. Viene da Petare, una delle grandi borgate povere sui cerros, le colline intorno a Caracas, e i compagni lo indicano come un simbolo del carattere interclassista delle nuove proteste: «Né poveri, né borghesi, solo venezuelani disperati». Ma Yeikee ha paura la sera quando torna a casa dall’Università perché l’altro fenomeno nuovo di queste settimane sono i colectivos, le bande armate dei paladini della rivoluzione bolivariana. Girano in motocicletta e attaccano i cortei degli studenti. Nelle borgate controllano la fedeltà ai dogmi rivoluzionari. Dall’altra parte ieri, Juan Requesens, presidente delle associazioni universitarie e leader delle proteste, ha lanciato l’ultimo proclama: «Non ci arrenderemo finché il governo non cambierà politica». La guerra sembra appena cominciata.