Filippo Ceccarelli, la Repubblica 28/3/2014, 28 marzo 2014
QUANDO IL POTERE SI INGINOCCHIAVA E DALLA CHIESA OTTENEVA CONSENSO
«LA superiorità è un servizio - fu il monito del Pontefice ai parlamentari giunti a San Pietro durante il Giubileo del 1950 - e il comando non è arbitrio, ma un atto di obbedienza alle eterne leggi della verità e della giustizia».
Erano giunti, gli uomini della politica (tra gli altri, De Gasperi, Spataro, Gonella, Segni, La Pira e il giovane Andreotti), su di un autobus che le cronache definiscono «color cilestrino». E alla fine dell’udienza, uno per uno, baciarono la mano del Santo Padre come un atto dovuto, anzi «con fervore e nella unanime commozione ». D’altra parte, cinque anni dopo, sempre al cospetto di Pio XII, il presidente della Repubblica Gronchi e il ministro degli Esteri Martino, un liberale, s’inginocchiarono ai suoi piedi e in quella posa restarono fino a quando non furono soddisfatte le esigenze del fotografo pontificio: «Prostrati - scrisse Vittorio Gorresio al bacio della sacra pantofola».
A quei tempi il Papa non aveva neanche bisogno di sferzare la classe politica perché era ancora il suo signore, o padrone che dir si voglia. Il termine è crudo, ma veritiero nella sostanza. «Il signor Papa» scappò detto un giorno, rabbiosamente, al presidente del Consiglio Scelba. E la volta che gli venne rifiutata un’udienza per l’anniversario di nozze De Gasperi, che pure non era un sentimentale, pianse - ma la cosa si riseppe anni e anni dopo.
Ai governi democristiani, come dire allo Stato, Sua Santità dava ordini, muoveva crociate, forniva truppe, cercava di imporre liste civiche nella capitale e dopo la nascita della tv arrivò perfino a imporre i mutandoni alle ballerine del sabato sera. Questo rapporto di dominio, Concilio o non Concilio, seguitò pur attenuandosi nel breve pontificato giovanneo. Papa Montini, che da assistente dell’Azione cattolica e poi da avveduto diplomatico conosceva i suoi polli scudocrociati, instaurò o per meglio dire riequilibrò la relazione con i politici in modo senz’altro più dialettico. Ma anche lui senza mai ignorarli - ad alcuni oltretutto voleva anche bene - né mai si ricordano da parte sua pubbliche rampogne; piuttosto un clima di reciproci segreti, e astuzie, intese, miserie, ipocrisie, equivoci consumatisi sotto quella che nelle sue memorie, «Un am-basciatore in Vaticano », a cura di Pietro Scoppola (Il Mulino, 1994), Gian Franco Pompei qualifica «la nube degli intermediari zelanti», diversi dei quali talvolta anche abusivi.
Vissuto dunque come entità arcana e comunque irraggiungibile, nel corso di una dozzina d’anni a Paolo VI si fecero variamente risalire, ma sempre sotto voce: lo stop nella corsa di Fanfani al Quirinale (1964); la caduta del terzo governo Rumor (1969); la spinta verso il referendum contro il divorzio (1974); i vani tentativi di salvare Moro (1978).
Con Carol Wojtyla, il Papa polacco e come tale disinteressato alle faccende italiane («Marini chi?»), la ricerca di un equilibrio con i potenti risultò dapprima assai problematica, quindi fu delegata a monsignor Ruini e ai suoi “movimenti” preferiti. Dopo di che una politica sempre più corrotta, sfinita e priva di idealità e passioni, non trovò di meglio che aggrapparsi, per così dire, alla bianca mantella apostolica. E così il vecchio eroico Papa malato e tremolante, campione di quei «Valori» che nei palazzi erano assai più proclamati che praticati, fu accolto in pompa magna a Montecitorio come una trionfale risorsa di consenso, triste espediente e parassitario per lucrare un’autorità ormai venuta meno in via definitiva.
Fra atei devoti e gentiluomini di Sua Santità in frac, videoclip da congresso e conversioni pasqualine di Magdi Cristiano Allam, con Papa Ratzinger il rovesciamento era completato. I politici «usavano » il Santo Padre e intanto s’illudevano di santificare in lui il loro stesso fragilissimo potere. Ma poi come si sa le cose cambiano - ed eccoci dunque a Francesco, e a quanto si è capito ieri in quello che nel 1950 Pio XII chiamava «il tempio della Cristianità».